Cambiamento e regressione: dall'obiettivo allo scopo, per evitare incresciose ricadute.

Alfonso Falanga, 20.09.2023

"Una volta centrato il bersaglio, è forte la tentazione di rilassarsi e di abbandonarsi, progressivamente, alle vecchie abitudini. Lo si fa per stanchezza, o per premiarsi per il risultato raggiunto, o perché non si sa più come procedere (è il caso in cui l'obiettivo via da…è assimilato alla meta ultima e conclusiva del percorso, che esaurisce ogni altro motivo, obiettivo e scopo del cambiamento). Prevenire queste dinamiche richiede disciplina e consapevolezza delle luci ed ombre (leggi: trappole) che animano il cammino verso la trasformazione".

Sommario.
-Il cambiamento come segno di umana normalità.
-Il cambiamento come evento avverso all'ordine delle cose.
-Senso e controsenso delle resistenze al cambiamento: bias e scelte di comodo.
-Bias e scorciatoie mentali.
-Le convinzioni trappola.
-La questione dell'atteggiamento mentale.
-Cambiamento e complessità: la forza è nel nonostante.
-Dall'obiettivo allo scopo: per non regredire, non logorarsi, non ingannarsi.

In un precedente articolo ho riportato alcune mie considerazioni sul processo di cambiamento. Al riguardo, qui voglio sottolineare ulteriormente il rischio che si corre, una volta svincolatisi dalle zone di comfort, di scivolare in pericolose regressioni qualora non si attui un cambio di prospettiva in merito a motivi e obiettivi del cambiamento. Prima di procedere vado a riassumere alcuni concetti espressi nell'articolo citato e che, ora, ci faranno da premessa.

Il cambiamento, in genere, consiste nell'uscire da condizioni insoddisfacenti, limitanti, frustranti. È un procedere, più per obbligo che per scelta, verso quel genere di obiettivo definito
via da…: via dal sovrappeso, ad esempio, o da una relazione sentimentale tossica, oppure da una condizione professionale stagnante, così come da livelli produttivi aziendali insufficienti, oppure  da un ambiente di lavoro demotivante.
Una volta centrato il bersaglio, è forte la tentazione di rilassarsi e di abbandonarsi, progressivamente, alle vecchie abitudini. Lo si fa per stanchezza, o per premiarsi per il risultato raggiunto, o perché non si sa più come procedere (è il caso in cui l'obiettivo via da…è assimilato alla meta ultima e conclusiva del percorso, che esaurisce ogni altro motivo, obiettivo e scopo del cambiamento). Prevenire queste dinamiche richiede disciplina e consapevolezza delle luci ed ombre (leggi: trappole) che animano il cammino verso la trasformazione. Vale la pena porre l'accento su alcune di queste ombre.

-Il cambiamento come segno di umana normalità.
I punti di vista riguardo al cambiamento sono sintetizzabili in due orientamenti: in uno, cambiare è inteso come un processo naturale e inevitabile, che è parte dell'essenza stessa della persona o di una collettività e che, perciò, costituisce una condizione indispensabile alla sua evoluzione materiale e immateriale. In quest'ottica, le resistenze al cambiamento agiscono contro il normale svolgersi della vita, ostacolano la crescita del singolo individuo così come del gruppo, sono atti illogici e dannosi che impediscono o rallentano fortemente la conquista del successo e della felicità. Il cambiamento, così considerato, è perciò sinonimo di dinamismo e il dinamismo, a sua volta, coincide con efficacia ed efficienza a prescindere. Il cambiamento, in sintesi, fa del mondo un mondo perfetto.
Da questa angolazione, qualsiasi soggetto che punti i piedi in terra per restare lì dov'è è tacciato di demotivazione, mancanza di fiducia in sé e negli altri, è visto come portatore di una mentalità retrograda e, perciò, di una visione parziale ed anacronistica del mondo e della vita. Il cambiamento, viceversa, è sinonimo di motivazione, di competenza, di buona volontà, di intraprendenza e lungimiranza, di forte identità personale ed autostima, di senso di realtà. Qualità tutte apprezzate ed apprezzabili eticamente e socialmente e che fanno del soggetto a cui sono attribuite un'entità positiva sempre e comunque, un modello di riferimento per chiunque voglia o debba intraprendere il cammino lungo e faticoso-ma certamente gratificante- dell'affrancamento dalle zone di comfort. Soltanto al raggiungimento di questa meta si accederà ad una vita autentica, una vita che è la propria vita, libera finalmente da ansie e da condizionamenti. È questo il mantra dei guru e dei life-coach, dei motivatori e dei form-attori.

-Il cambiamento come evento avverso all'ordine delle cose.
Da una seconda angolazione, la condizione naturale a cui un singolo o un collettivo aspirano è, invece, la quiete, traducibile in  stabilità, equilibrio, reiterazione fluida e tranquillizzante dello standard. In una simile ottica, la routine è origine e scopo della molteplicità dei comportamenti umani. Restare nelle zone di comfort, in questa luce, è la via per ridurre lo stress: replicare comportamenti standardizzati è la cura contro ansie e fobie.
In questa prospettiva, è il cambiamento a risultare contro natura. Ne consegue che le resistenze al cambiamento sono atti coerenti con il bisogno umano di prevedibilità, semplificazione, agio, benessere fisico e mentale. Tant'è che ben si sa come si resista al cambiamento attraverso elaborati processi mentali- i cosiddetti bias- anche quando le circostanze richiederebbero un mutamento di rotta. Insomma, il cambiamento non è mai una scelta ma sempre una costrizione: si cambia se e solo se non se ne può fare a meno.

"Da un'altra angolazione, il cambiamento è inteso come segno di fallimento: si deve cambiare perché, prima, si è sbagliato tutto. Perciò si resiste al cambiamento in quanto si resiste all'ammissione del fallimento. È una circostanza ben nota ai formatori aziendali, lì dove la formazione viene pregiudizialmente intesa dai destinatari come la correzione di presunti errori, come la cura rispetto a un deficit di competenze e attitudini, come imposizione della teoria sulla propria esperienza pratica, quotidiana a-tra l'altro- generatrice di buoni risultati".

-Senso e controsenso delle resistenze al cambiamento: bias e scelte di comodo.
Che ci si orienti secondo l'una o l'altra prospettiva, resta il dilemma riguardo all'emergere delle resistenze al cambiamento particolarmente quando è la realtà ad imporre di cambiare e, ancor più, quando si dispone delle risorse necessarie a farlo (competenze, conoscenze, disponibilità economica, età, salute).
A questo punto, vale la pena riflettere sulle loro possibili origini:

  1. Il cambiamento, in alcuni casi, è interpretato esclusivamente come un via da ...Vale a dire che si ha ben chiaro da quale condizione bisogna svincolarsi ma non è altrettanto chiaro quali sono i vantaggi che ne derivano. In sintesi, si sa cosa si perde nel cambiare ma non cosa si guadagna. Il cambiamento, in tal caso, è vissuto esclusivamente come rinuncia a qualcosa di noto, e già per questo rassicurante, per muoversi verso un inquietante ignoto. Si afferma , perciò, una visione del cambiamento come puro e semplice rischio/sacrificio. Ci si domanda, allora: Ne vale la pena? È veramente necessario cambiare? Perché non provo/proviamo a fare meglio quello che già faccio/facciamo (dove meglio è inteso come insistenza ovvero ripetizione ancora più incessante ed accurata degli stessi comportamenti)? E, intanto, si reitera la routine.
Si tratta di una dinamica affine a quella a cui fa riferimento lo psicologo statunitense-premio Nobel 2002 per l'economia- Daniel Kahneman quando afferma: "...gli svantaggi di un cambiamento appaiono più grandi dei suoi vantaggi, inducendo un bias che favorisce lo status quo" (D. Kahneman, Pensieri lenti e veloci-Thinking, Fast and Slow, 2011- tr. Laura Serra, Mondadori, 2012, p. 322). Uno dei cardini di questa prospettiva è "l'avversione alla perdita", ovvero la tendenza delle persone, di fronte a una scelta, a dare maggior peso a quel che si rischia di perdere rispetto a quel che si potrebbe ricavare. In sintesi, si preferisce rinunciare ad una possibile opportunità pur di evitare ipotetici rischi.
2. Altre volte il cambiamento viene considerato un evento improvviso, radicale e totalizzante, una sorta di fatto epocale e rivoluzionario. E' una prospettiva in cui il mutamento di rotta è un rimedio necessario e spaventoso e, proprio per questo, difficile da realizzare. Il soggetto coinvolto, allora, si domanda: Ne sarò capace? È un interrogativo che inevitabilmente chiama in causa il senso di autostima e ciò con tutte le conseguenze del caso sulla visione che quel soggetto-singolo o collettivo- possiede di sé, degli altri, del mondo. In attesa della risposta, si resta lì dove si è, semmai si va anche un po' più indietro.
3. In una ulteriore circostanza, il cambiamento è assimilato alla modifica del carattere e del senso di identità (nel caso di una organizzazione, della cultura e dell'identità di gruppo). La convinzione su cui poggia questo tipo di visione è così sintetizzabile: Per cambiare il mio comportamento devo cambiare il mio carattere (…dobbiamo rivedere la nostra identità e i nostri valori). In tal modo il mutamento è inteso come giudizio/correzione rispetto a ciò che si è e si è stati. Si mette, così, in atto una generalizzazione che estende all'intera persona (o al gruppo) l'intervento su un singolo aspetto comportamentale. Un simile punto di vista spinge i soggetti coinvolti a radicalizzare ancora di più i propri "difetti" finendo con lo "sbagliare" di più e meglio.
4. Da un'altra angolazione, il cambiamento è inteso come segno di fallimento: si deve cambiare perché, prima, si è sbagliato tutto. Perciò si resiste al cambiamento in quanto si resiste all'ammissione del fallimento. È una circostanza ben nota ai formatori aziendali, lì dove i loro interventi (fermo restando la necessaria competenza contenutistica ed espositiva) sono pregiudizialmente intesa dai destinatari come  correzione di presunti errori, come cura rispetto a un deficit di competenze e attitudini, come imposizione della teoria sulla propria esperienza pratica, quotidiana a-tra l'altro- generatrice di buoni risultati (un approfondimento al riguardo).
 5. Fino ad ora abbiamo considerato il cambiamento come l'affrancarsi da abitudini antiche e disfunzionali. In alcuni casi, però, le circostanze impongono un mutamento di rotta anche se lo stile comportamentale fin lì adottato funziona.
È questo il caso, frequente nel mondo del lavoro, in cui singoli professionisti, o l'azienda intera, sono chiamati a rivedere le proprie strategie d'azione e non perché siano improduttive bensì per rinforzarne i punti forti, per svincolare il successo sempre più da fattori casuali, per rendere metodo azioni messe in atto automaticamente e, dunque, inconsapevolmente. Anche in tali circostanze i soggetti coinvolti producono resistenza che hanno a che fare con il senso di identità professionale e personale. Anche questa è una circostanza con cui spesso si devono confrontare i professionisti della formazione aziendale e della gestione delle risorse umane, così come coach e istruttori sportivi, quando sollecitano singoli o team ad analizzare il successo ("ma se funziona, cosa c'è da analizzare?") (è una resistenza che poggia  sulla distorta visione dell'analisi, della riflessione, del monitoraggio come correzione, cura, riempimento di un vuoto).


"...le resistenze al cambiamento hanno la loro forza in una sorta di semplificazioni che sono delle vere e proprie scorciatoie mentali adottate dal soggetto (singolo o gruppo), più o meno consapevolmente, per semplificarsi la vita, per non decidere credendo di decidere, per restare fermo dichiarando di cambiare o voler cambiare, per ridurre la complessità della scelta (emotiva e comportamentale) ad un solo gesto che si riduce nel ripetere quel che già si fa: una sorta di copia e incolla delle proprie azioni attraverso lo scorrere del tempo, in una adolescenziale e assurda-quanto comprensibile-pretesa di fermarlo, il tempo".

-Bias e scorciatoie mentali.
Dalle precedenti riflessioni, si deduce che le resistenze al cambiamento hanno la loro forza in una sorta di semplificazioni che sono delle vere e proprie scorciatoie mentali adottate, più o meno consapevolmente, per semplificarsi la vita, per non decidere credendo di decidere, per restare fermi dichiarando di cambiare o voler cambiare, per ridurre la complessità della scelta (emotiva e comportamentale) ad un solo gesto che si riduce nel ripetere quel che già si fa: una sorta di copia e incolla delle proprie azioni attraverso lo scorrere del tempo in una adolescenziale -quanto comprensibile ai fini dell'equilibrio psichico- pretesa di fermarlo, il tempo. 
Si mettono in atto, in tal caso, i già citati bias, atti mentali attraverso cui l'individuo conforma la realtà al suo sistema di riferimento. Entra in scena la cosiddetta euristica 1), ovvero l'insieme dei processi mentali con cui semplifichiamo la percezione del mondo e salvaguardare il nostro equilibrio psichico 1).
I bias e l'euristica, in quest'ottica, vanno a sostenere la visione del cambiamento come evento contro natura e la ricerca della stasi come fatto, invece, naturale.

1) " Gli errori sistematici sono definiti bias, preconcetti che ricorrono in maniera prevedibile in particolari circostanze", Daniel Kahneman, Pensieri lenti e veloci, cit,  p.4.

2)"Euristica è una definizione tecnica, e sta a indicare una semplice procedura che aiuta a trovare risposte adeguate, anche se spesso imperfette, a quesiti difficili", ivi p.109.


-Le convinzioni trappola.
In un precedente articolo ho messo l'accento sul rischio di regressione che si corre una volta realizzato l'obiettivo via da… Al riguardo, ho sottolineato la fallacia di alcune convinzioni che sono sia causa che conseguenza della regressione. Tra queste, ho indicato smetto quando voglio come frequente supporto a quel circolo vizioso in cui una persona fa un passo avanti, verso l'assunzione di nuove modalità comportamentali e due indietro: giova ricordare, al riguardo, che quando si è impegnati in un processo di cambiamento un solo passo indietro ne vale due o tre in quanto ad effetti negativi.

A smetto quando voglio si accompagnano altre convinzioni altrettanto fuorvianti, quali:

1. per cambiare bisogna aspettare il momento giusto o, che è lo stesso, non è questo il momento di fare cambiamenti;

2. per cambiare, bisogna uscire dalle zone di comfort;

3. Sono gli altri a dover cambiare, non io.

Riguardo alla prima, la realtà ci dice che non ci sono momenti giusti per cambiare. O meglio, il momento giusto c'è pure ed è proprio quello in cui le circostanze appaiono nella loro evidente criticità reclamando, perciò, un immediato mutamento di rotta. Ancor più, il momento giusto è quello in cui si anticipa l'evento critico e si evita, così, di scivolare in una condizione di emergenza. Come scrive Don DeLillo: "Il momento in cui bisogna aver paura è quando non c'è nessun motivo per averne", (Don DeLillo, L'uomo che cade -Falling Man, 2007-tr. Matteo Colombo, Einaudi, 2017, p. 12) (in sostanza: prevenire è meglio che curare).
In riferimento alla seconda affermazione, così come non si può aspettare il momento giusto, allo stesso modo non si può attendere, per cambiare, di uscire dalle zone di comfort. In quanto imprescindibile, il cambiamento va messo in atto non al di fuori ma nonostante le zone di comfort. Lo svincolarsi da antiche abitudini disfunzionali, dunque, non è una premessa al cambiamento ma ne è l'esito o, semmai, è un processo che si sviluppa parallelamente al percorso stesso.
Sul ritenersi unici e speciali e, perciò, immuni da ogni cambiamento: si tratta di una convinzione che deriva dalla sopravvalutazione della propria esperienza. Non è una questione di megalomania, bensì si tratta di una forma di semplificazione della realtà attraverso cui si svaluta la complessità della realtà stessa e ciò per renderci la vita più agevole e optare, con la coscienza a posto, per la scelta più semplice, più immediata, più in linea con la visione del mondo, di sé e degli altri. La scelta, cioè, di ripetere ciò che già si è fatto e che, probabilmente, è quel che si sa fare meglio, senza stress, senza impegno e ciò al di là con la sua congruenza con l'attualità.

-La questione dell'atteggiamento mentale.
Queste convinzioni, nel loro insieme, rinviano a quel nodo alquanto intricato che è l'atteggiamento mentale ovvero su come e in che modo la propria visione del mondo, e di se stessi, influisce sulle scelte e i comportamenti personali.
A volte, con atteggiamento mentale si sintetizza l'insieme di motivazione, volontà, motivo, concentrazione, focalizzazione sull'obiettivo. In base a quest'orientamento, cambiare richiede un diverso atteggiamento mentale rispetto alla standard sintetizzabile, ancora una volta, nello svincolarsi dalle zone di comfort.
La linea che qui stiamo seguendo, invece, considera l'atteggiamento mentale come l'insieme di 1. consapevolezza, 2. decisione, 3. azione. Nello specifico:
1. consapevolezza, nel senso di presa di coscienza, della particolarità delle circostanze in cui emerge l'istanza del cambiamento.
2. segue l'atto decisionale con cui si dà l'avvio (in un certo senso si autorizza se stessi ad agire) al processo di cambiamento e, di conseguenza, 3. all'azione con cui si rende tangibile tale decisione.
Volontà e motivazione seguono l'azione e la verificabilità dei suoi esiti, ovvero:
-si afferma la volontà di proseguire nel processo, dunque di produrre azioni successive coerenti con l'atto iniziale;
-emerge l'attrazione verso i risultati raggiunti e da raggiungere: il percorso e la meta diventano desiderabili. Attraggono e, perciò, motivano.
Il discorso dell'atteggiamento mentale non si esaurisce qui. Si riafferma, infatti, nel momento che l'obiettivo del cambiamento – l'obiettivo via da…- viene centrato. Come già accennato, a questo punto emerge l'urgenza di spostare energia mentale e fisica dall'obiettivo allo scopo (si rimanda, per le specifiche, all'articolo già citato).


-Cambiamento e complessità: la forza è nel nonostante.
In altre occasioni (qui e qui) ho condiviso alcune personali considerazioni su complicanza e complessità, sottolineando come i due termini, e i loro significati, a volte siano utilizzati indifferentemente ed erroneamente uno al posto dell'altro. Ritengo, infatti, che complicato sia un evento tanto conflittuale e critico da risultare effettivamente irrisolvibile (a dispetto dello slogan, anch'esso fallace come ogni slogan, a ogni problema corrisponde una soluzione) o, comunque, la cui soluzione è più costosa del problema stesso.
Complesso è, invece, un evento che include molteplici variabili spesso tra loro contraddittorie al punto che sembrano, perciò, escludersi a vicenda. In quest'ottica, sono molteplici i fatti della vita (eventi, comportamenti) che è lecito definire complessi. Fatti che non si spiegano secondo lo schema lineare causa-effetto ma devono essere compresi, ovvero accolti nella loro totalità e svelati attraverso un'attribuzione di senso. Ciò significa indicarne il legame con gli altri eventi che lo accompagnano, lo precedono, lo seguono. Alla fine quell'evento risulterà, più che una composizione di micro-eventi connessi  secondo una logica sequenziale, un mosaico di fattori diversi che rinviano l'uno all'altro non per spiegare ma per completare. E questo pur mantenendo, ogni elemento, la sua diversità, la sua peculiarità, il suo essere unico ed originale.
Scrive Italo Calvino al riguardo:
"…per cui un'onda è sempre diversa da un'altra onda; ma è anche vero che ogni onda è uguale a un'altra onda, anche se non immediatamente contigua e successiva; insomma ci sono delle forme e delle sequenze che si ripetono, pur se distribuite irregolarmente nello spazio e nel tempo", (Italo Calvino, Palomar, 1994, Mondadori, 2016. p. 6).
E' in questa prospettiva che il processo di cambiamento può dirsi un evento complesso: esso, infatti, include variabili tra loro contrastanti. Da un lato, c'è la tensione verso comportamenti lontani dallo standard e diretti verso una maggiore funzionalità rispetto sia alle istanze del momento che a quelle future. Dall'altro, questa stessa tensione è accompagnata da pensieri e convinzioni antiche e che, si sa, incongrue rispetto all'attualità. 
Come è già stato sottolineato, il cambiamento non avviene in uno scenario libero da vecchie abitudini bensì si verifica nonostante quelle abitudini o nonostante la tentazione a cedervi. La forza di chi intraprende un percorso di cambiamento è racchiusa proprio nell'accettazione della complessità di quel processo, ovvero nell'accoglienza delle sue incongruenze e nella rinuncia ad osservarlo attraverso un'ottica lineare, razionale, fondata esclusivamente sul modello causa/effetto.

-Dall'obiettivo allo scopo: per non regredire, non logorarsi, non ingannarsi.
In conclusione, richiamiamo quanto indicato nel titolo di quest'articolo, dove si sottolinea ancora una volta il valore dello scopo come antidoto alle fatali regressioni che, a volte, seguono il cambiamento (qui un approfondimento al riguardo).
Darsi uno scopo significa decidere come e perché utilizzare il risultato raggiunto. Vuol dire fare dell'obiettivo via da…un punto di partenza e non un definitivo approdo. A volte accade che, giunti alla meta, non si sa come proseguire e, pertanto, per non cedere ai richiami del passato, si insiste sull'obiettivo: lo si pone e ripropone fino a generare un accumulo quantitativo di risultati (del medesimo risultato riproposto più e più volte, sempre uguale a se stesso) e ciò fino a ridurre il cambiamento ad un mutamento solo formale e non sostanziale. Così facendo, il cambiamento diventa un pericoloso inganno.