Paul Auster, Città di vetro (City of Glass, 1985), in Trilogia di New York (The New York Trilogy, 1987), tr. Massimo Bocchiola, Torino, Einaudi, 1996.
"New York era un luogo inesauribile, un labirinto di passi senza fine: e per quanto lo esplorasse, arrivando a conoscerne a fondo strade e quartieri, la città lo lasciava sempre con la sensazione di essersi perduto. Perduto non solo nella città, ma anche dentro di sé. Ogni volta che camminava sentiva di lasciarsi alle spalle se stesso, e nel consegnarsi al movimento delle strade, riducendosi a un occhio che vede, eludeva l'obbligo di pensare; e questo, più di qualsiasi altra cosa, gli donava una scheggia di pace, un salutare vuoto interiore. Il mondo era fuori di lui, gli stava intorno e davanti, e la velocità del suo continuo cambiamento gli rendeva impossibile soffermarsi troppo su qualunque cosa. Il movimento era intrinseco all'atto di porre un piede davanti all'altro concedendosi di seguire la deriva del proprio corpo. Vagando senza meta, tutti i luoghi diventavano uguali e non contava più dove ci si trovava. Nelle camminate più riuscite giungeva a non sentirsi in nessun luogo. E alla fine era solo questo che chiedeva alle cose: di non essere in nessun luogo. New York era il nessun luogo che si era costruito attorno, ed era sicuro di non volerlo lasciare mai più", p. 2.
"Ora sono principalmente un poeta. Ogni giorno mi siedo nella mia stanza e scrivo una poesia nuova. Tutte le parole le invento da me, come facevo quando vivevo al buio. Comincio a ricordare le cose in quel modo, a fingere di essere tornato nel buio. Sono l'unico a spere il significato delle parole. Non si possono tradurre. Queste poesie mi renderanno famoso. Batti il chiodo sulla testa. Ie, ie, ie. Splendide poesie. Talmente splendide che faranno piangere tutto il mondo.
Un giorno forse farò cose diverse. Quando avrò finito di essere un poeta, Vede, prima o poi esaurirò le parole. Ognuno ne possiede una quantità limitata. E cosa farò dopo?", p. 19.
"Dappertutto era luce, una luce infinita che sembrava irradiarsi da ogni cosa su cui l'occhio si posava; e in alto, tra i rami degli alberi, soffiava sempre una brezza che scuoteva le foglie con un sibilo appassionato, un respiro che saliva e scendeva, costante come l'onda sulla spiaggia", p. 72.
"-Veda, io mi sto prodigando a inventare una nuova lingua. Con un lavoro come questo di fronte, non posso lasciarmi sommuovere dalla stupidità altrui. E in ogni caso, tutto fa parte della malattia che sto cercando di curare.
-Una nuova lingua?
-Si. Una nuova lingua. che finalmente dica quello che dobbiamo dire. Perché le nostre parole non corrispondono più al mondo. Quando le cose erano intere, credevamo che le nostre parole le sapessero esprimere. Poi a mano a mano quelle cose si sono spezzate, sono andate in schegge franando nel caos. Ma le nostre parole sono rimaste le medesime. Non si sono adattate alla nuova realtà. Pertanto, ogni volta che tentiamo di parlare di ciò che vediamo parliamo falsamente, distorcendo l'oggetto che vorremmo rappresentare. Tutto si fa disordine", p. 76.
"Una bugia non si cancella mai, nemmeno con la verità", p. 86.

"Ma accattoni e artisti da strada non rappresentano che una piccola parte della popolazione girovaga. Sono l'aristocrazia, l'élite dei falliti. Molto più numerosi sono quelli senza niente da fare né un posto dove andare. Molti sono ubriaconi…ma questo termine non rende giustizia alla devastazione da loro incarnata. Carcasse di disperazione avvolte in stracci, le facce contuse e sanguinanti, arrancano per via come in catene. Assopiti nei portoni, follemente barcollanti nel traffico, stramazzati sul marciapiedi, nel momento in cui li cerchi sembrano essere dappertutto.
Alcuni moriranno di fame, altri di caldo o freddo, altri ancora verranno picchiati o bruciati o torturati. Per ogni anima persa in questi particolare inferno, ce ne sono altre prigioniere della pazzia, incapaci di uscire dal mondo che si allarga sul limitare del corpo. Benché sembrino esserci, non puoi calcolarli come presenti", p. 110.