Cosa ci può insegnare il dramma di Willy Loman, commesso viaggiatore.

Alfonso Falanga, 31 marzo 2023.



    Le cento pagine, o poco più, che narrano la storia di Willy Loman, protagonista di Morte di un commesso viaggiatore (A. Miller, Morte di un commesso viaggiatore-Death of Salesman, 1949-tr. Gerardo Guerrieri, Einaudi, 1979), includono molte cose. Per cominciare, come ben si sa, compongono un dramma. Tale in quanto descrive vicende umane a cui i protagonisti vanno incontro come chi si muove verso un destino inevitabile, immodificabile, inesorabile. Un destino, appunto. E procedono contro la loro stessa volontà pur se a volte- per sopravvivere psicologicamente- si concedono l'illusione che ogni passo sia frutto di una loro libera scelta.

   Il dramma del capofamiglia, Willy Loman appunto, inoltre è un manifesto contro il sistema valoriale di un' America reduce vittoriosa dalla Seconda guerra mondiale sia sul piano militare che economico. Un sistema che, però, ha come contrappeso l'offuscamento – se non l'annullamento – delle individualità e ciò pur dichiarando l'individuo il suo fondamentale pilastro (in effetti, è già così ben prima dello scoppio del conflitto). Un sistema che, per alimentare lo spirito dell'iniziativa individuale, consuma ogni energia fisica e mentale di coloro a cui dichiara di essere destinato e che rende le relazioni interpersonali, particolarmente se riferite al lavoro, vere e propri campi di battaglia dove non si prevedono prigionieri e dove conta la slealtà prima di ogni altra prerogativa. Un esempio di questa visione della vita è racchiuso nell'affermazione di uno dei personaggi secondari (di fatto, nel dramma non ci sono veri personaggi secondari dal momento che ognuno è, almeno, testimone -se non anche causa- del declino fisico e psicologico di Willy):  
"Ben (battendo la mano su ginocchio di Biff): Mai gioco leale con chi non conosci, mai, giovanotto! Non esci più dalla giungla!", (cit., p. 37).

   Willy, alla fine della sua carriera, a sessantatré anni, è ridotto male, molto male: lo è nel corpo e nella psiche, nel lavoro e negli affetti. Tanto che la moglie Linda, parlandone con il figlio Biff, dice: "Lui non è che una barchetta che cerca il suo porto" (cit., p. 59).
Ed è un porto a cui Willy non approderà mai: si illuderà più di una volta di esservi giunto per subire, poi, cocenti delusioni. Anche perché Willy, nel lavoro, non è stato quel gran professionista come crede. Per quanto si illuda, per quanto voglia girare lo sguardo da un'altra parte, per quanto rifiuti la realtà e si rifugi nell' immaginazione, nei sogni, la realtà gli è confermata in modo brutale quando viene licenziato dall'impiego a cui ha dedicato trentaquattro anni della sua vita. E viene licenziato, senza appello, da Howard, il figlio del vecchio titolare dell'agenzia di assicurazioni, ormai defunto, colui che l'aveva assunto in tempi in cui "…la gente era considerata, Howard. C'era il rispetto, c'era la solidarietà, c'era la gratitudine" (Willy rivolgendosi ad Howard) (cit. p. 64).
Invece, oggi, è "…tutto arido, senz'anima. L' amicizia non ha più nessun valore-la considerazione […] Capisci quello che voglio dire? Non ci si ricorda più di me", (cit. p. 64).
In verità, non ci si ricorda più di nessuno in quel sistema dove ciò che conta è quanto si produce, quanto si vende e quanto sin guadagna. Eppure Willy, al riguardo, nonostante l'età sia professionale che anagrafica, pare che non abbia ancora capito come funziona veramente il mondo a cui appartiene. Glielo ricorda, cinicamente, l'amico Charley:
"-Charley: Caro mio, quello che esiste al mondo è quello che vendi! Mi meraviglio di te, che vendi da cinquant'anni e non lo sai!
-Willy: Ma io ho sempre ragionato in un altro modo. Io ho pensato sempre che un uomo debba farsi benvolere, far colpo…
-Charley: Sì, stai fresco, a farti benvolere da tutti! Quando mai Rockefeller ha fatto colpo!" Al bagno turco sembrava uno spazzino! Faceva colpo il suo portafoglio, quello sì che faceva colpo!" (cit. p. 76).

   C'è anche il dramma familiare in Morte di un commesso viaggiatore. È un dramma causato dall'incapacità di comunicare tra padre e figli (o meglio il figlio, Biff), dal farsi del male pur non volendo, dall'accusare gli altri per la propria infelicità e dall'accusarsi per essere causa dell'infelicità di persone a cui, tutto sommato, si vuole bene.
Certo, il dramma familiare non è indipendente da quello individuale di Willy e Biff, che sono in conflitto tra loro così come lo sono con il mondo esterno, particolarmente con quel mondo del lavoro da cui il padre è stato appena espulso e a cui il figlio non è in grado di accedere.
Eppure, sembra che l'origine di tutti i loro mali sia l'incapacità di stare con i piedi in terra, la tendenza al sogno, all'illusione, alla visione edulcorata di una realtà che, invece, è pronta a fare a brandelli ogni sogno e ogni illusione. È proprio questo il paradosso in cui sono intrappolati i protagonisti: essi vivono in un sistema che, per essere sostenuto, obbliga ai sogni per poi, implacabilmente, infrangerli al fine di riproporsi e potenziarsi.
Il figlio lo ha capito ancor prima del padre, che invece si ostina considerarsi ciò che non è anche quando la realtà gli si svela in tutta la sua crudezza.
Biff, inutilmente, prova a metterlo in guardia contro se stesso, contro i suoi sogni che lo stanno condannando alla tragedia finale:
"-Biff: Papà, io non valgo una cicca! E neanche tu, papà!
-Willy (voltandosi contro di lui in uno scoppio irrefrenabile): Io valgo più di una cicca. Io sono Willy Loman e tu Biff Loman!

[…]
-Biff: Papà, io non sono nessuno! Io non valgo niente! Lo vuoi capire? Io sono così e basta […] Per amor di Dio, perché non mi lasci andare? Perché non prendi quei sogni bugiardi e non li bruci prima che succeda qualcosa?", (cit., pp. 104-105).


   Il dramma della famiglia Loman è che risultano alla fine sconfitti nelle battaglie quotidiane sia colui che non ha creduto ai sogni, Biff, sia chi vi ha ceduto, come Willy.
Forse, come afferma il figlio quando ne parla con Charley, la tragedia del padre non ha avuto origine dal sognare in sé ma dal fatto che l'ingenuo e testardo Willy li sbagliava, i sogni. Tutti i suoi sogni erano sbagliati. Il fatto è che il sistema obbliga a sognare, di qualsiasi sogno si tratti. Senza il sogno è impossibile reggere alla pressione del sistema. Lo spiega bene proprio Charley, quando si rivolge così a Biff:
"-Charley: Tu non hai capito: Willy era un commesso viaggiatore. E se tu fai il commesso viaggiatore non vivi sulla terra […] Tu lavori così, per aria, aggrappato a un sorriso o al lucido che hai sulle scarpe. E quando nessuno ti sorride più, è la fine del mondo […] Un commesso viaggiatore deve sognare. I sogni fanno parte del mestiere", (cit., p. 110).

   Mi vengono in mente, a questo punto, i sogni – la ricchezza, la perfezione, il facile accesso al benessere materiale, il "volere è potere", il "ci devi credere, tutto dipende da te!" – di matrice americana tipici degli anni '80/'90, poi importati da sedicenti motivatori, guru della fuffa, anche da noi e che hanno inquinato le menti di giovani e meno giovani imprenditori e professionisti della vendita spesso, a loro insaputa, novelli Willy Loman (pur senza giungere, per fortuna, all'acme del dramma). Sogni che la realtà degli ultimi venti anni, tra crisi finanziarie, pandemie, guerre e povertà, ha letteralmente spazzato via. È questo, forse, il solo e triste vantaggio che ci è concesso ricavare da questi brutti anni. E si spera che il crollo dei sogni non ci faccia persistere, come Willy, nell'errore e che ci spinga, invece, a sostituirli con obiettivi ambiziosi ma legittimi, con le conoscenza e le competenze doverose e necessarie.