Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo (Le Comte de Monte-Cristo, 1846), tr. Gaia Panfili, Feltrinelli, 2024.
"Solo! Era ritornato solo! Era ricaduto nel silenzio, si ritrovava di fronte al nulla!
Solo! Nemmeno più la vista, nemmeno più la voce dell'unico essere umano che ancora lo teneva avvinto alla terra! Non era forse meglio, a rischio di passare attraverso la lugubre porta dei patimenti, andarsene a chiedere a Dio l'enigma della vita come Faria?
Allora, parimenti a uno spettro, accanto al cadavere di Faria tornò a manifestarsi l'idea del suicidio scacciata dall'amico, allontanata dalla sua presenza", p. 163.
"Avvertiva non so qual turbamento, alquanto simile al timore. Era la diffidenza nei riguardi della luce del giorno, che financo nel deserto ci fa supporre che siano sgranati su di noi occhi indagatori", p. 190.
" L'uomo, invece, l'uomo che Iddio ha fatto a sua immagine, l'uomo a cui Iddio ha imposto come prima, come unica, come superna legge l'amore per il prossimo, l'uomo a cui Iddio ha dato voce per esprimere il proprio pensiero, quale sarà il suo primo grido quando apprenderà che il proprio compare è salvo? Una bestemmia. Onore all'uomo, il capolavoro della natura, il re del creato!", p. 333.
"Nell'aprirsi, la porta rivelò un cielo smorto in cui la luna si affannava invano a lottare contro un mare di nubi, che la ricoprivano dei propri flutti nerastri per un istante rischiarati e che andavano poi a perdersi, più scuri ancora, nelle profondità dell'infinito", p. 412.
"La vista e l'odorato erano gli unici due sensi che, al pari di due scintille, animassero ancora quella materia umana già per tre quarti apparecchiata per la tomba; per soprammercato di tali due sensi uno solo poteva manifestare all'esterno la vita interiore che animava la statua; e lo sguardo che rivelava tale vita interiore era simile a uno di quei bagliori lontani che di notte apprendono al viaggiatore smarrito in un deserto che v'è ancora un essere in vita a vigilare nel silenzio e nella tenebra", p. 553.

"…egli intravvide solamente una faccia bizzarra, brunita dal sole, incorniciata da una barba di rigore, occhi sfolgoranti come gemme e un sorriso beffardo che si allargava su una bocca in cui, allineati al proprio posto e senza che ne mancasse uno, solo, sfolgoravano trentadue denti bianchi, aguzzi, e famelici come quelli di un lupo o di uno sciacallo", p. 600.
"…dunque è vero che tutte le nostre azioni lasciano tracce nel passato, alcune cupe, altre luminose! Dunque è vero che tutti i nostri passi in questa vita somigliano all'incedere del rettile sulla sabbia, e scavano un solco!" Ahimè, per molti tale solco è quello delle lacrime", p. 623.
"Accade tutti i giorni che un giocatore perda non solo ciò che ha, ma financo ciò che non ha", p. 670.
"Il conte sentì battere il cuore più rapido. Per quanto temprati al pericolo, per quanto avvertiti del repentaglio, gli uomini capiscono sempre dal fremito del cuore e dal brivido della carne la differenza immane che esiste tra il sogno e la realtà, tra il progetto e l'esecuzione", p.782.
"Le ferite morali hanno di peculiare che si mascherano ma non si richiudono; sempre dolorose, sempre pronte a sanguinare quando le tocchiamo, permangono nel cuore vive e aperte", p. 813.
"Gli uomini davvero generosi sono sempre pronti a farsi compassionevoli, quando la sventura del nemico travalica i confini dell'odio", p. 814.
"«Fernand-urlò-dei miei cento nomi basterebbe che te ne dicessi uno solo per fulminarti; questo nome però lo indovini, vero? O piuttosto te lo ricordi? Perché nonostante tutte le mie afflizioni, tutti i miei tormenti, ti mostro oggi un viso che la gioia della vendetta ringiovanisce, un viso che spesso avrai visto in sogno, dopo le tue nozze...con Mercédès, la mia fidanzata!».
Il generale, il capo rovesciato all'indietro, le mani tese, lo sguardo fisso, divorò in silenzio l'abominevole spettacolo; quindi, andando a cercare la parete come sostegno, scivolò lentamente sino alla porta, da cui uscì indietreggiando e lasciandosi sfuggire un unico grido lugubre, lamentevole, lacerante:
«Edmond Dantes!»", pp. 863-864.
"In nome di Dio-esclamò il procuratore con una fermezza non priva di burberia-in nome di Dio, non chiedetemi mai grazia per un colpevole. Chi sono io? La legge. La legge ha forse occhi per vedere il vostro cordoglio? La legge ha forse orecchie per udire la vostra soave voce? La legge ha forse una memoria per farsi lo strumento dei vostri delicati pensieri? Nossignora, la legge ordina, e quando ordina la legge colpisce. Mi direte che sono un essere vivente e non un codice; un uomo e non un volume. Guardate me, guardate intorno a me: gli uomini mi hanno forse trattato come un fratello? Mi hanno forse amato? Mi hanno forse usato riguardi? Mi hanno forse risparmiato? Qualcuno ha forse chiesto grazia per monsieur de Villefort, e a questo qualcuno è stata forse accordata la grazie di monsieur de Villefort? No, no, no! Colpito, sempre colpito! Voi donna, ovvero sirena che non siete altro, vi ostinate a parlarmi con l'occhio maliardo ed eloquente che mi rammenta che devo arrossire. Ebbene sì, e sia, arrossire è ciò che sapete, e forse…forse per altro ancora. Ma insomma, da quando io stesso ho fallito, e più profondamente degli altri, ebbene, forse da quel momento ho scrollato gli abiti altrui per scovare la piaga, e sempre l'ho scovata; e dirò di più, l'ho scovata con gaudio, con gioia, quel suggello della debolezza o della perversità umana. Ogni uomo che riconoscevo colpevole, infatti, e ogni colpevole contro cui agivo mi parevano una prova vivente, una prova ulteriore che io non ero un'eccezione mostruosa. Ahimè, ahimè, ahimè, tutti sono malvagi: proviamolo, e colpiamo il malvagio!", pp. 920.921.
"…proprio non capite che anch'io devo dimenticare? Ebbene, quando lavoro, e lavoro giorno e notte, quando lavoro ci sono momenti in cui non rammento più, e quando non rammento più sono felice alla stregua dei morti: comunque, è ancora meglio che soffrire", p. 921.
"La notte scintillava di stelle. Si trovavano in cima alla china di Villejuif, sul pianoro da cui al pari di un mare oscuro, Parigi fa vibrare le milioni di luci che somigliano a flutti fosforescenti e di flutti effettivamente si trattava: flutti più fragorosi, più frenetici, più mobili, più furiosi, più avidi di quelli dell'Oceano irritato; flutti che non conoscono requie al pari di quelli del vasto mare; flutti che sempre sbattono, sempre schiumano, sempre inghiottono", p. 1015.
"Alla stregua di capitani avventurosi che si imbarcano per un viaggio rischioso e meditano una spedizione perigliosa, io preparavo le vettovaglie, caricavo le armi, facevo incetta di strumenti d'attacco e difesa, rendendo avvezzo il corpo agli esercizi più violenti, temprando l'anima agli scontri più bellicosi, allenando il braccio ad uccidere, gli occhi a veder soffrire, la bocca a sorridere agli aspetti più orripilanti; da bonario, fiducioso, dimentico qual ero, mi sono reso vendicativo, subdolo, malvagio e impassibile come la sorda e cieca fatalità. A quel punto mi sono lanciato nella via che mi era aperta, ho valicato lo spazio, ho raggiunto la meta: guai a quanti ho incontrato sul mio cammino", p. 1021.
"«Il conte di Montecristo!», esclamò Danglars, più pallido di terrore di quanto un istante prima non fosse di fame e di miseria.
«Vi sbagliate; io non sono il conte di Montecristo».
« E chi siete, dunque?».
«Sono colui che avete venduto, consegnato, disonorato; sono colui la cui fidanzata voi avete prostituito; sono colui sopra il quale voi avete camminato per ergervi fino alla fortuna; sono colui il cui padre avete fatto morire di fame, colui che vi aveva condannato a morire di fame, e che purtuttavia vi perdona, giacché egli stesso ha bisogno di essere perdonato: io sono Edmond Dantes», p. 1053.