Paul Auster, Follie di Brooklyn (The Brooklyn Follies, 2005), tr. Massimo Bocchiola, Einaudi, 2005.

"Desidero parlare della felicità e del benessere, di quei momenti rari e inaspettati in cui la voce dentro la tua testa tace e ti senti tutt'uno con il mondo.
Desidero parlare del clima ai primi di giugno, di armonia e di benefico riposo, dei pettirossi e dei fringuelli gialli e degli uccelli azzurri che guizzano oltre le foglie verdi degli alberi.
Desidero parlare dei vantaggi del sonno, dei piaceri del cibo e dell'alcol, di quello che succede alla tua mente quando esci nella luce solare delle due del pomeriggio e senti il caldo abbraccio dell'aria attorno al corpo.
Desidero parlare di Tom e Lucy, di Stanley Chowder e dei quattro giorni che passammo al Chowder Inn, dei pensieri pensati e dei sogni sognati in cima a quell'altura del Vermont meridionale.
Desidero ricordare i crepuscoli cerulei, le languide albe rosa, gli orsi che di notte uggiolavano nel bosco.
Desidero ricordare tutto. Se tutto è chiedere troppo, almeno una parte. No, di più. Quasi tutto. Quasi tutto, con qualche spazio vuoto riservato ai pezzi mancanti",
p. 170.

"È un'altra splendida giornata, forse la più bella della primavera, ma si rivela anche giorno di sorprese, di scossoni che alla fine surclasseranno la perfezione del paesaggio del clima relegandola in un angolo della mia mente. Se ricordo qualcosa di quel giorno è nella forma di un puzzle in disordine, una massa di impressioni isolate. Una macchia di cielo azzurro qui; lì una betulla argentea, la cui corteccia riflette la luce del sole. Nubi che sembrano facce umane, carte geografiche di stati, fantastici animali a dieci zampe. Il lampo di un serpente giarrettiera che striscia fra l'erba. Il lamento a quattro note di un mimo. Le mille foglie di un pioppo tremulo svolazzanti come falene ferite mentre il vento scivola fra i rami. È presente ogni singolo elemento ma manca l'insieme, le parti non sono unite e io non posso fare altro che cercare i rimasugli di un giorno che non esiste pienamente", p. 199.

"È questo che succede quando arrivi in un ospedale. Ti levano i vestiti, ti infilano una di quelle tuniche umilianti, e di colpo smetti di essere te stesso. Diventi la persona che abita il tuo corpo, e quello che ora sei è la somma totale delle insufficienze di quel corpo. Venire sminuito in tal modo significa perdere ogni diritto alla riservatezza. Quando entrano i medici e le infermiere per farti le domande, devi rispondere. Loro vogliono mantenerti vivo, e solo una persona che non vuole vivere darebbe loro delle riposte false. Se ti ritrovi in un cubicolo , e un metro alla tua destra un altro essere umano viene interrogato da un medico o da un'infermiera, non puoi evitare di sentire quello che dice. Non hai necessariamente voglia di conoscere le risposte, ma ti trovi in una posizione per cui non puoi farne a meno[…]Quando un uomo si crede in punto di morte parla con chiunque abbia voglia di ascoltarlo", p. 304.