Great resignation e quiet quitting: ricerca di una migliore qualità di vita o
segnali di assuefazione alla sufficienza?
Alfonso Falanga, 10/03/2023
"Ritengo che, oggi, sia in atto una sorta di reazione che ha in sé, come spesso accade quando si reagisce a orientamenti esasperanti, il rischio di favorire una tendenza opposta sintetizzabile nel cedere al richiamo del minimo indispensabile. Condizione che mi pare si stia palesando attraverso l'assuefazione alla mediocrità, all'appena sufficiente che segna gli attuali processi sociali, politici, economici a livello nazionale e internazionale".

I fenomeni del momento, nel mondo delle aziende e delle professioni, si sa che sono great resignation (grandi dimissioni) e quiet quitting (abbandono silenzioso).
È noto che con la prima denominazione si intende, in sintesi, l'abbandono volontario del posto di lavoro da parte di professionisti giovani e meno giovani che non sempre, comunque, scelgono questa opzione allo scopo di collocarsi a livelli occupazionali più alti in termini di prestigio e di retribuzione. La dinamica, ormai di portata internazionale, risponde essenzialmente ad istanze relative alla qualità della vita più che, appunto, a bisogni di ordine specificamente professionale.
Con quiet quitting ci si riferisce ad un processo che ha significativi punti di contatto con le grandi dimissioni. Si tratta della tendenza, da parte del professionista, a svolgere il proprio lavoro esclusivamente nei limiti previsti (mansioni, orari, giorni lavorativi): l'abbandono silenzioso sottolinea un distacco principalmente emotivo dai compiti legati al ruolo che si ha in azienda.
In entrambi i casi, insomma, si opta per la qualità della vita invece che per gratificazione professionale.
Quali le origini di questi fenomeni? Al riguardo, gli esperti di gestione HR richiamano, tra le altre cose, gli anni della pandemia, che, da un lato, costringendoci in casa, hanno evidenziato il valore della vita domestica, del tempo recuperato per sé e non più sprecato nel traffico o nei treni in ritardo. Dall'altro, hanno mostrato che un modo di vivere alternativo a quello centrato sul lavoro è possibile oltre che auspicabile.
In quest'ottica, grandi dimissioni e abbandono silenzioso esprimono in buona misura una reazione agli anni dell'"ubriacatura da lavoro", del dipende da te, della crescita professionale come presupposto inalienabile alla crescita personale (anzi, tutt'uno con essa), dell'insegui i tuoi sogni e del volere è potere.
Le due dinamiche, insomma, costituiscono la reazione a una cultura che enfatizzava (ed enfatizza) la assoluta centralità dell'individuo e la sua conseguente responsabilità riguardo al proprio destino, ai successi e agli insuccessi. Una cultura ansiogena e generatrice di frustrazioni, demotivazioni e sensi di colpa.
Leggi anche "La trappola del volere è potere": una porta spalancata verso il senso di fallimento.
Per quel che mi riguardo, ho già in altre occasioni espresso il mio disappunto verso quest'orientamento stile anni '80/'90, tutto sogni e motivazione. E' un disappunto, che tutt'ora confermo, verso un paradigma valoriale che, ritengo, sia stato foriero di profondi cali di autostima in quei professionisti che, ammaliati dal credici e volere è potere, hanno poi dovuto fare i conti con altre variabili ben al di fuori del loro potere di intervento (loro e di qualsiasi altro individuo): da un lato la casualità e, dall'altro, dinamiche sociali-economiche del tutto imprevedibili – almeno per chi vive nel quotidiano – e disorientanti.
Eppure…
Eppure, nonostante limiti e responsabilità, quella del "volere è potere" è una cultura che possiede alcuni pregi: spinge verso l'eccellenza, ad esempio, sostiene l'ambizione, appoggia il volere emergere. Certo, per lo più lo fa esagerando al punto da ridursi ad una sequela di ammonimenti colpevolizzanti e deprimenti.
Eppure, rappresenta comunque una sollecitazione ad assumere comportamenti vincenti o, almeno, virtuosi.
Ritengo
che, oggi, sia in atto una sorta di reazione che ha in sé, come spesso accade quando si reagisce a orientamenti esasperanti, il rischio di favorire una tendenza
opposta sintetizzabile nel cedere al richiamo del "minimo indispensabile". Condizione
che mi pare si stia palesando attraverso l'assuefazione alla mediocrità, all'appena
sufficiente che segna gli attuali processi sociali, politici, economici a livello nazionale e internazionale. Un atteggiamento mentale che si traduce in comportamenti accomodanti se non del tutto rinunciatari, che conduce - quasi obbliga- a trovare una giustificazione a ogni
debolezza e anzi a valorizzarla come tratto di umanità, questo accontentarsi (qui rifletto sui rischi dell'"importante è partecipare"), questo
chiedere invece che pretendere (pretendere il rispetto dei ruoli e dei compiti, nulla di più).
Questo ritenere le questioni di merito come un attentato alla dignità personale lì dove non ci si riferisce, invece, agli inalienabili diritti
della persona ma "soltanto" a competenze e comportamenti. Di tutto ciò è espressione, io credo, anche il pervasivo political correct, con l'appiattimento linguistico che lo accompagna. Così come, per alcuni aspetti, ritengo che siano espressioni di questa reazione le grandi dimissioni e, principalmente, l'abbandono silenzioso.
Non auspico, al riguardo, una ripresa che sia una via di mezzo. La via di mezzo è una farsa: è un po' dell'uno e un po' dell'altro. Auspico l'affermarsi di un paradigma culturale che costituisca una originale terza via, dove siano validi ruoli e competenze e dove il merito riguardi il sapere e nulla abbia a che fare con diritti e dignità, che sono e restano inalienabili.