L'abuso di "capolavoro" apre le porte alla mediocrità.
Alfonso Falanga, 9 febbraio 2024.
I gusti esistono e, meno male, ognuno ha i suoi. È quanto accade in tanti aspetti della vita. Certamente anche nella fruizione di un'opera d'arte.
Questo per ribadire quel che è (dovrebbe) essere ovvio, ossia che è normale (sano) come a me un film/libro/brano musicale possa piacere e ad un'altra persona no. E viceversa.
Eppure, di questi tempi, i gusti sono estremamente radicalizzati ed esasperati, proprio come se fossero espressione di chissà quali inamovibili e sacri stili di vita o verità scientifiche (affermare, ad esempio, "il film della Cortellesi non mi è piaciuto" è come dire, più o meno, "la terra è piatta") (con la differenza che, nel primo caso, si subisce l'accusa di bieco maschilismo e di essere fautore di un truce ed antistorico patriarcato; nel secondo si viene accantonati con un fiacco e benevolo "ma dai…").
Escludendo che qui si voglia affrontare la spinosa questione del politically correct, con tutte le sue aberranti derivazioni, ciò che più semplicemente si intende affermare è la connessione tra la questione del gusto personale e, particolarmente in campo cinematografico, l'abuso di "capolavoro" e dei suoi consociati: per citarne alcuni, "iconico", "imperdibile", "mi ha cambiato la vita". Ormai sono rari i casi in cui un film è semplicemente un buon film (il che non è poco), un film fatto bene, stimolante, emozionante. Anzi, dire che un film è un buon film, a volte suona come un'affermazione consolatoria verso coloro che l'hanno realizzato. Una sorta di pacca sulla spalla o di buffetto sulla guancia.
Questo non vuol dire che non ci siano veri capolavori in giro. Tutto sta ad individuarli. Quelli veri, appunto. Per farlo, a volte è necessario metterli da parte, i gusti personali, invece che lasciarsene guidare.
Non è semplicemente una questione semantica (per me capolavoro significa una cosa, per te un'altra) (fermo restando che esiste un'oggettività semantica). È che l'abuso dell'eccezionale rischia di produrre una serie di semplificazioni che finiscono, progressivamente, per assopirlo, il gusto. Per atrofizzare lo spirito critico. E, alla fine, per sfociare nell'accontentarsi di quel che passa il governo, nel non pretendere quando, invece, si ha il diritto/dovere di pretendere verso coloro che hanno risorse, onori e privilegi.
Insomma, gridare troppo al capolavoro è l'anticamera della mediocrità. E non solo per quel che riguarda i gusti cinematografici.
