Cesare Pavese, Il carcere (1939) in Prima che il gallo canti (1948), BUR, 2021.


"Stefano, in quei primi tempi, passava insonni le notti nella sua catapecchia, perch'era di notte che la stranezza del giorno lo assaliva agitandolo, come un formicolio del sangue. Nel buio, ai suoi sensi il brusìo del mare diventava muggito, la freschezza dell'aria un gran vento, e il ricordo dei visi un'angoscia. Tutto il paese di notte s'avventava entro di lui sul suo corpo disteso. Ridestandosi, il sole gli portava pace", p. 51.
"Nessuno si fa casa di una cella, e Stefano sentiva sempre intorno le pareti invisibili", p. 59.
"Quella finestra bassa aperta nel vuoto alla nuvola azzurra del mare, gli era apparsa come lo sportello angusto e secolare del carcere di quella vita", p. 76.
"La carne nuda fra i brandelli di sacco appariva e riappariva inerme e oscena come carne di piaga: il corpo vero di quel vecchio erano i cenci e il sudiciume, le bisacce e le croste; e intravedere sotto tutto ciò una carne nuda faceva rabbrividire", p. 108.

"Senza lotta, s'accorse Stefano, non si può stare soli; ma star soli vuol dire non voler più lottare. Ecco almeno un pensiero che gli teneva compagnia, una precaria compagnia che sarebbe ben presto cessata", p. 111.
"…si resiste a star soli finché qualcuno soffre di non averci con sé, mentre la vera solitudine è una cella intollerabile", p. 114.
"Le nuvole, i tetti, le finestre chiuse, tutto in quell'attimo era dolce e prezioso, tutto era come uscire dal carcere. Ma poi? Meglio restarci per sognare di uscire, che non uscirci davvero", p. 126.

"-Voi credete che la prigione consista nell'astinenza?
-Come no?
Gaetano ascoltava sopra pensiero.
-Vi sbagliate-disse Stefano-, la prigione consiste nel diventare un foglio di carta",
p. 144.