Cesare Pavese, Il compagno (1947), SAGA Egmont, 2021.


"Poi entrarono facce bruciacchiate dal freddo. Una donna, due donne dal grembialone di cuoio, verduriere dei banchi, che anche loro prendevano grappini o il caffè con la branda. Un facchino, dei pezzenti, che battevano i piedi. Erano facce come tante del corso. Cominciò a far chiaro", p. 33.
"Chi avevo visto, conosciuto finora? In che posti ero stato? Certi giorni, a pensare quanta gente c'è a questo mondo, anche poveri diavoli che nessuno conosce, mi veniva voglia di andarmene a spasso, di saltare sopra un treno, che quasi gridavo", p. 43.
"Lei rise. Riuscivo a farla ridere volendo. Era come suonare. Ci sono dei gesti, dei versi, dei trilli che si fanno per burla, per tirare con te chi ti ascolta. Come dare un'occhiata, far finta di niente. Viene un momento che si fa senza pensarci. Linda capiva queste cose. Mi guardava. Come aspirasse una boccata: Mi metteva la mano su braccio e mi guardava. In quei momenti avrei potuto dirle: -Andiamo a far l'amore- che sarebbe venuta", p. 54.
C'era un locale a pochi passi dal Varietà, dove si andava a mezzanotte a bere l'ultimo liquore, sentire la musica, fare il mattino. Le sere che Linda faceva tardi in sartoria l'aspettavo dentro. A quell'ora vi passavano il tempo divette e sportivi, prestigiatori e camerieri fuori turno, vetturini, ragazze. Era come seguire il varietà alla rovescia. Ogni tanto una donna, un ometto, una famiglia di acrobati si alzavano e scappavano in teatro. Chi fumava, chi faceva crocchio, chi mangiava […] di tanto in tanto un disgraziato attaccava con una ragazza […] Questo locale si chiamava il Mascherino", p. 59.

"Ecco, pensavo, la chitarra. La chitarra è una cosa che faccio, se voglio. A Novara ci vado, se voglio. Alla tampa ci vado. Con Carletto discorro. Tutto quello che faccio così per capriccio, lo faccio da me. Ma le cose importanti, le cose che buttano a terra, queste cose succedono per conto loro. Vengono addosso come un camion, come una brutta polmonite, e dietro c'è qualcuno che ci gode e ci gioca", p. 88.
"Per capire le cose bisogna studiare, non le sciocchezze che insegnavano a scuola a noialtri, ma com'è che si legge il giornale, com'è fatto un mestiere, chi comanda nel mondo. Si dovrebbe studiare per sapere fare a meno di quelli che studiano. Per non farsi fregare da loro", p. 107.
"Non è star chiusi, la prigione, è l'incertezza", p. 155.
"La presi in canna e traversammo Roma. Mi faceva un effetto curioso vedere le strade. Tra la prigione e che partico quella sera, mi sembrava una nuova città, la più bella del mondo, dove la gente non capisce che è contenta. Come quando uno pensa che è stato bambino e dice:- L'avessi saputo, Potevo giocare-. Ma se qualcuno ti dicesse: -Puoi giocare-, non sapresti nemmeno com'è che si cominci", p. 164.
"-Sai com'è- dissi allora. - Non si ha mai tempo, è come in cella. Uno dice: - Quando esco mi voglio sfogare. Voglio fare le cose più matte-. Ma quando esci fuori e puoi fare tutto, fai sempre soltanto le cose di prima", p. 165.

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