
Cesare Pavese, La casa in collina (1948),
Einaudi, 2020
"Cominciavo a quei tempi a compiacermi in ricordi d'infanzia. Si direbbe che sotto ai rancori e alle incertezze, sotto alla voglia di star solo, mi scoprivo ragazzo per avere un compagno, un collega, un figliolo. Rivedevo questo paese dov'ero vissuto. Eravamo noi soli il ragazzo e me stesso. Rivivevo le scoperte selvatiche d'allora. Soffrivo sì ma col piglio scontroso di chi non riconosce né ama il prossimo. E discorrevo discorrevo, mi tenevo compagnia. Eravamo noi due soli", p. 4.
"Mi pareva di avere riaperto una stanza, un armadio dimenticati, e di averci trovato dentro la vita di un altro, una vita futile, piena di rischi. Era questo che avevo scordato. Non tanto Cate, non i poveri piaceri di un tempo. Ma il giovane che viveva quei giorni, il giovane temerario che sfuggiva alle cose credendo che dovessero ancora accadere, ch'era uomo e si guardava sempre intorno se la vita giungesse davvero, questo giovane mi sbalordiva.
Che cosa c'era in comune tra me e lui? […] tutto pareva il ricordo di un paese lontano, di una vita agitata, che ci si chiede ripensandoci come abbiamo potuto gustarla e tradirla così", pp. 8-9.
"Passai mezza mattinata riordinando il registro di classe per gli scrutini imminenti. Facevo addizioni, scrivevo giudizi. … Fra un istante il cielo poteva di nuovo muggire, incendiarsi e della scuola noi restare che una buca cavernosa. Solamente la vita, la nuda vita contava. Registri, scuole e cadaveri erano cose già scontate", p. 12.
"Tutti avevamo un'incoscienza in questa guerra, per tutti noi questi casi paurosi si erano fatti banali, quotidiani, spiacevoli. Chi poi li prendeva sul serio e diceva: - È la guerra-costui era peggio, era un illuso o un minorato", p. 13.
"La sera estiva brulicante di sentori e di speranze mi diede alla testa", p. 42.
"Per non farle, ti rendi le cose impossibili", p. 44.
"La guerra era scesa tra noi, dentro le case, per le vie, nelle prigioni", p. 64.
"Ormai non c'era più dubbio. Accadeva da noi quel che da anni accadeva in tutta Europa-città e campagne allibite sotto il cielo, percorse da eserciti e da voci paurose. In quei giorni non moriva soltanto l'autunno. A Torino, sopra un mucchio di macerie, avevo visto un grosso topo, tranquillo nel sole. Tanto tranquillo che al mio avvicinarsi non aveva mosso il capo né trasalito. Era ritto sulle zampe e mi guardava. Degli uomini non aveva più paura", p. 67.
"E verrà il giorno che nessuno sarà fuori della guerra- né i vigliacchi, né i tristi, né i soli. …Tutti avremo accettato di far la guerra. E allora forse avremo la pace", p. 124.
"Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi", p. 126.