La Comunicazione, a volte, è un labirinto.

Alfonso Falanga, 19 novembre 2022



"La comunicazione è un processo che a volte può tradursi in un labirinto.

Accade quando si comincia il dialogo convinti che porterà lì dove si vuole andare. Ci sono tutte le premesse affinché si realizzi lo scopo per cui quel dialogo ha avuto inizio: le motivazioni sono adeguate, le capacità espressive più che sufficienti, dall'altra parte c'è chi ascolta con attenzione e dice la sua con convinzione. Ci si introduce nella relazione, insomma, persuasi di conoscere la direzione da seguire.

Poi succede qualcosa ..."


Il labirinto è una particolare delimitazione dello spazio che favorisce, in chi vi si avventura, un comportamento caotico fatto di gesti identici l'uno all'altro quanto infruttuosi.

L'ingresso del labirinto è libero da ogni intralcio: la facilità di accedervi è un vero e proprio invito ad oltrepassarlo. Andarsene, invece, non è semplice, si sa: nulla, nel labirinto, è predisposto affinché ciò accada. Anzi, ogni elemento che lo struttura è fatto per confondere chi vi finisce imbrigliato.

Nel labirinto il tempo perde la sua normale sequenzialità per trasformarsi in una dimensione circolare: qualsiasi  tentativo, fallito, di venirne fuori rappresenta il principio di un nuovo esperimento. 

Il tempo, nel labirinto, ha mai una vera fine, solo ricorrenti inizi.


La vita offre diverse occasioni in cui si avverte la sensazione di essere in un labirinto.

In tali circostanze, le pareti del labirinto sono spesso edificate su convinzioni, emozioni, sentimenti,  percezioni, obiettivi distorti  ed aspettative grandiose. Ecco sono le fondamenta. I mattoni sono le parole.



La comunicazione è un processo che a volte può tradursi in un labirinto.

Accade quando si comincia il dialogo convinti che porterà lì dove si vuole andare. Ci sono tutte le premesse affinché si realizzi lo scopo per cui quel dialogo ha avuto inizio: le motivazioni sono adeguate, le capacità espressive più che sufficienti, dall'altra parte c'è chi ascolta con attenzione. Ci si introduce nella relazione, insomma, persuasi di conoscere la direzione da seguire.

Poi succede qualcosa: scatta la molla di un'emozione imprevista e indesiderata, di un pensiero svalutativo nei riguardi di se stessi o degli interlocutori, si fa sentire un pregiudizio. L'origine? Una parola detta o non detta, uno scambio di sguardi che esprimono quel che le parole non dicono. O altro, pur se minimo, indefinibile eppure in grado di tradursi in reazioni emotive e comportamentali consistenti. Si afferma, a questo punto, l'inquietante sensazione che il tempo stia passando invano, che la strada inizialmente intrapresa cominci a deviare, che si proceda pure nel parlare ma che, appunto, non si faccia altro che parlare senza dire ciò che si aveva intenzione di dire.

La fiducia iniziale che la meta della comunicazione sarebbe stata raggiunta si tramuta in frustrazione: ci si sente in balìa dell'interlocutore che pare che parli, sì, ma senza mai dire effettivamente quel che vorrebbe dire. Lo scopo del dialogo, a questo punto, sembra che  sia  quello di aggiungere parole ad altre parole e ciò a prescindere dai contenuti. Anche la forma, lentamente, si sfalda.



"In quali circostanze la comunicazione si trasforma in un labirinto?

Cosa accade, quando comunichiamo, che a volte che ci fa percepire intorno a noi il labirinto?"



Comincia la ricerca della via di uscita. L'obiettivo iniziale perde di valore. Ciò che conta è porre fine alla vuota conversazione. La nuova meta diventa liberarsi dal carico di negatività che ha preso il sopravvento sulla fiducia iniziale. 

La negatività viene amplificata da un senso di frustrazione: si è stati incapaci di seguire la rotta stabilita in origine. La frustrazione si traduce ben presto in vergogna.


Per meglio comprendere questo genere di evento è opportuno partire da alcune specifiche domande:

1. in quali circostanze la comunicazione si trasforma in un labirinto?

2. ovvero cosa accade, quando comunichiamo, che a volte che ci fa percepire di essere entrati in un labirinto?


Una spiegazione emerge dalle argomentazioni di Stephen B. Karpman, psicologo statunitense, in merito al cosiddetto Triangolo Drammatico.

Dice Karpman che gli individui si pongono nei confronti del mondo a partire da una specifica posizione, definita in Analisi Transazionale "posizione esistenziale", strutturata dal complesso di convinzioni su sé, gli altri ed il mondo in genere.

L'origine di questa posizione è da cercarsi nella storia personale che, oltre al passato, include una componente legata all'attualità che, a volte, si traduce nella ricerca di conferme a ciò che è già stato. A ciò che si è stati e si è, o almeno si ritiene di essere.

La ricerca della conferma produce, come sua conseguenza, la svalutazione di alcuni aspetti della realtà, quelli che metterebbero in discussioni le convinzioni che sono alla base dell'agire.

Svalutare, quando si comunica, significa non tenere conto di alcuni stimoli che giungono dall'esterno sotto forma di messaggi verbali e non verbali. Oppure dal proprio interno: emozioni, sentimenti, percezioni, pensieri, idee.

La svalutazione produce un'assunzione di un ruolo specifico nei confronti del mondo. Questo ruolo può essere definitivo, vale a dire che resta tale in ogni situazione. Può risultare, invece, assunto solo in date circostanze.

Oppure può variare repentinamente fino alla conferma della posizione prioritaria.

Si tratta, in ogni caso, di un ruolo psicologico/esistenziale, ovvero che nulla o poco ha a che fare con lo status che la persona occupa effettivamente nell'organizzazione sociale o familiare oppure professionale. E' un ruolo che deriva, in estrema sintesi, da come la persona si "sente" e si percepisce rispetto a se stessa e agli altri.


Karpman definisce tali ruoli Vittima, Salvatore e Persecutore (l'inziale maiuscola sottolinea che non si tratta, appunto, di ruoli effettivi).

La posizione della Vittima è quella di chi sente di non avere alcuna responsabilità in ciò che accade di negativo a sé e agli altri. Convinta di non essere partecipe degli eventi se non per subirli, ritenendo di non possedere poteri decisionali che gli permettano di orientare la realtà in proprio favore, la Vittima si percepisce incapace a risolvere.

Tale inadeguatezza è sentita aprioristicamente rispetto all'agire: vale a dire che la Vittima si riconosce tale senza alcun bisogno di dimostrare a sé e agli altri la propria incapacità. Non avverte il bisogno di alcuna verifica alla propria (presunta) inadeguatezza.

La Vittima ha bisogno di un Salvatore, vale a dire di chi lo riconosce altrettanto aprioristicamente incapace e, quindi, è pronto ad agire in sua vece. Dunque, necessita di chi, a sua volta disposto su una specifica posizione esistenziale, si inserisce nel suo copione vittimistico: i ruoli drammatici sono tra loro complementari.

Il Persecutore è il ruolo agito da chi sente l'incessante bisogno di aggredire per difendersi da altri che sono aprioristicamente considerati incapaci a risolvere o colpevoli sempre e comunque. Oppure colpevoli in quanto incapaci.

Il Persecutore non sa porsi nei confronti dell'altro se non su posizioni di superiorità, pur avvertendosi paritario, disponibile, salvifico. Più percepisce che la sua magnanimità, di cui è fermamente convinto consapevolmente, non viene riconosciuta dal suo interlocutore, più il suo atteggiamento inconsapevolmente diventa persecutorio.



"Si continua a comunicare senza mai entrare veramente in contatto con il destinatario del proprio messaggio né si accoglie effettivamente la sua risposta. Si è vicini, dunque, impossibilitati però a vedersi e toccarsi".


Come già accennato, alcuni individui assumono uno di questi ruoli in via definitiva ovvero qualsiasi sia il tipo di relazione in cui si inseriscono.

Altri esprimono una delle tre posizioni in circostanze specifiche: ad esempio si sentono Vittima nelle relazioni professionali e Persecutore in quelle affettive, Salvatore nei rapporti familiari e Persecutore in quelli di lavoro o Vittima con il partner e Salvatore con gli amici. Ulteriori combinazioni sono possibili.

Altre volte la stessa persona, nell'ambito della medesima relazione, assume tutte e tre le posizioni.

Ha un esordio da Salvatore, ad esempio, per sentirsi, con il procedere della comunicazione, Vittima ed alla fine svolgere il ruolo di Persecutore.

L'interlocutore, intanto, si assegnerà alternativamente ruoli complementari: sarà Vittima, poi Persecutore per tornare ad essere Vittima.


Nella sostanza, al di là del ruolo iniziale, la conclusione della relazione confermerà la posizione che la persona avverte, per sé, predominante. In pratica, l'alternanza delle posizioni è  apparente: si mette in atto sempre uno stesso ruolo assumendo, in alcuni momenti, atteggiamenti che sembra che lo contraddicono ma che, alla fine, lo confermano. Lo rafforzano, anzi

L'alternanza delle posizioni si traduce nella edificazione di uno spazio (labirintico) emotivo e cognitivo in cui l'altro, alla fine, perde la connotazione iniziale. È come se il dialogo avvenisse con e tra persone sempre diverse una dall'altra, individui comunque distanti dalla specificità iniziale.

Il disordine invade non solo la percezione dell'esterno ma anche la consapevolezza di sé, del proprio ruolo, delle proprie motivazioni ed aspettative riguardo le mete della comunicazione. A questo genere di scompiglio se ne aggiunge uno di carattere emotivo, con manifeste ripercussioni sulle modalità esteriori della comunicazione stessa.

La ragione del dialogo diviene sfuggente e si perde in pseudo - mete diverse una dall'altra, spesso contraddittorie tra loro.

Si continua a comunicare senza mai entrare veramente in contatto con il destinatario del proprio messaggio né si accoglie effettivamente la sua risposta. Si è vicini, dunque, impossibilitati però a vedersi e toccarsi.


Uno stratagemma da mettere in atto per uscire dal labirinto è troncare la comunicazione. Questa è la mossa più immediatamente a portata di mano. È la strada accessibile sempre e a tutti. Non richiede granché di impegno: è sufficiente abbandonare la relazione.

Eppure, questa frattura risolve la confusione soltanto in apparenza. L'interruzione, infatti, appartiene alla dimensione esteriore, quella del semplice parlare. Essa non basta a far cessare il groviglio interiore in cui si è intrappolati.

Anche quando l'altro esce fuori dal proprio campo visuale e dal proprio raggio di azione si rischia di restare intrappolati nel labirinto.

L'unica effettiva alternativa al dramma è non aderire alla svalutazione messa in atto dall'interlocutore, che sia Vittima o Persecutore o Salvatore. Non aderire vuol dire non adottare modalità comunicative complementari al ruolo assunto dall'altro il che, in sostanza, è l'esito del non uniformare le proprie emozioni ed i propri pensieri all'immagine che l'interlocutore ci rimanda di sé e di noi stessi.

Uscire dal labirinto è possibile, allora, se ci si dispone a compiere un cammino a ritroso che conduce dall'esterno verso l'interno fino a toccare le corde profonde dei propri sentimenti. Ciò significa essere pienamente consapevoli dei propri vissuti,  nelle loro espressioni a volte paradossali ed incongrue, per comprenderne l'effettivo legame con l'evento esterno. Ciò si traduce nel riconoscere ed accogliere la propria spinta salvifica o vittimistica oppure persecutoria, invece di soffocarla e ciò allo scopo di non lasciarsene distrarre. Solo attraverso la consapevolezza delle proprie spinte ad assumere ruoli drammatici diventa probabile che si legga, si interpreti, si viva la relazione per quel che effettivamente è e si producano, così, le risposte ad essa adeguate.

Si tratta di un percorso che ad ogni passo ci avvicina di più agli altri. Ce li fa conoscere e riconoscere come persone che parlano con voce diversa da quella di un tempo, quando ancora non li riconoscevamo arroccati come eravamo ai vertici del triangolo drammatico.