- La confraternita dell'uva (The Brotherhood of the Grape, 1977) tr. Francesco Durante, Einaudi, 2004.

"Il suo corpo si irrigidì sotto la coperta. Si voltò, mi esaminò con lo sguardo allarmato mentre il pallore si impadroniva del colorito del suo viso. Il respiro le si era fermato, e scrutare le gallerie che erano diventati i suoi occhi era come guardare un paesaggio artico, gelido e silente", p. 34.
"Mio padre sarebbe stato un uomo più felice se non avesse avuto una famiglia...I figli erano i chiodi che lo tenevano crocefisso a mia madre...Non gli andavano particolarmente a genio, e di certo non ci amava proprio. Eravamo soltanto dei ragazzi comuni, normali e senza qualità fuori dall'ordinario; lui aveva sperato in qualcosa di più. Eravamo una corvée che andava fatta", pp. 38-39.
"Era un montanaro venuto dall'Abruzzo...nato in una parte dell'Italia in cui la miseria era spettacolare quanto i ghiacciai circostanti e dove qualunque bambino che fosse riuscito a sopravvivere per i primi cinque anni ne avrebbe compiuti ottantacinque", p. 39.
"Il mio vecchio non aveva mai desiderato dei figli. Aveva desiderato apprendisti muratori e scalpellini. Aveva invece ottenuto uno scrittore, un cassiere di banca, una figlia sposata e un frenatore di treni. Si può dire che avesse tentato di trasformare i suoi figli in scalpellini allo stesso modo in cui sapeva trasformare la pietra, ma il colpo era andato a vuoto", p. 46.
"Cacciò di tasca un fazzoletto a pallini, si soffiò il naso e ingollò un altro poco di vino. Faceva pietà: distrutto, imbarazzante, rivoltante, spudorato, stupido, rozzo, disgustoso e sbronzo, il peggior padre che un uomo potesse avere...", p 65.
"Poi accadde. Una sera, mentre la pioggia batteva sul tetto spiovente della cucina, un grande spirito scivolò per sempre nella mia vita. Reggevo il suo libro tra le mani e tremavo mentre mi parlava dell'uomo e del mondo, d'amore e di saggezza, di delitto e di castigo, e capii che non sarei stato più lo stesso. Il suo nome era Fëdor Michajlovič Dostoevskij", p. 82.
"Finiscila papà, sei sbronzo, non fai che commiserarti e invece dovresti smetterla, non hai alcun diritto di piangere, sei mio padre...e dunque è osceno che tu pianga, ed è una cosa che mi umilia, finirò per morire per la tua pena, non posso reggere a questo tuo dolore, questa pena mi dovrebbe essere risparmiata, ne ho abbastanza delle mie. E altre ancora ne avrò, ma non piangerò mai di fronte ad altri, sarò forte e affronterò i miei ultimi giorni senza lacrime, vecchio. Ho bisogno della tua vita, non della tua morte, della tua gioia, non della tua mestizia. E allora piansi anch'io, in piedi, davanti a lui", p. 125.
"Una volta guardai verso il cielo e domandai:-Che ora è?-Rispose lui:-Non esistono, le ore- e risi. Dio, se era profondo", p. 135.
"Di nuovo ero uno schifo, uno schifo proletario, il figlio di un muratore dal destino avaro che aveva per tutta la vita sgomitato in cerca di uno spazio su questa terra. Talis pater, talis filus. Ah, Dostoevskij! Fëdor sarebbe potuto uscire dalla nebbia e avrebbe potuto mettermi una mano sulla spalla, e questo non avrebbe significato nulla. Come poteva un uomo vivere senza suo padre?", pp. 150-151.
"Ora che non avevo più il mio, avrei preso uno qualunque di loro perché mi fosse padre. Davvero: qualunque uomo, o magari un cespuglio, un albero, un sasso, purché mi volesse come figlio. Ero anch'io un padre, ma non volevo quel ruolo. Volevo tornare indietro nel tempo, quand'ero piccolo e mio padre girava per casa, forte e rumoroso. Fanculo la paternità. Non ci ero tagliato. Ero nato per fare il figlio", p. 182.