Tore Renberg, La mia Ingeborg, (Tollak til Ingeborg, 2020) , tr. Margherita Podestà Heir, Fazi, 2024.

"Ci vuole molto tempo prima che una persona fraternizzi con se stessa. Ma poi ci riesce. Alla fine.
Un bel giorno tutto quello che ha fatto e che ha visto e tutti quelli che ha incontrato si trovano schierati davanti a lui in file ordinate e ogni cosa risulta finalmente al suo posto. Tutto. Il bello e il brutto. Ed è in quel momento che uno sa di essersi riconciliato con se stesso", p. 27.
"Non mi aveva mai sfiorato il pensiero che le tenebre presenti in lei non fossero scomparse, ma si fossero soltanto chetate per riposarsi. Lei mi manca così tanto che mi sembra di sanguinare dietro gli occhi", p. 41.
"Arriva un odore rancido dal secchio che ho messo sotto il lavello della cucina, la guarnizione perde. Il lavello è pieno di piatti, forchette, bicchieri e cibo rappreso. Le pantofole sono luride come le scarpe che indosso quando vado fuori. La polvere è ovunque, ma più che di polvere si tratta ornai di uno strato di sporcizia […] Sul tavolo della cucina ci sono grumi di candela sparsi su tutta la superficie. Dappertutto regna il disordine e lo sporco più totale.
Non mi interessa.
Ma mi tormenta il pensiero di quello che avrebbe detto Ingeborg", p. 71.
"Non riesco ad avere troppa gente intorno.
Con il passare degli anni lo aveva capito poco alla volta e alla fine avevamo trovato il nostro modo quieto e silenzioso di vivere, il mio", p. 82.
"Oddo è un uomo adulto, ma non ha età. In lui c'è un giovane furibondo che non bisogna liberare, in lui c'è un bambino che piange, a cui non fa bene che lo si liberi. Oddo ha bisogno di spazi piccoli, non sa molto bene come rapportarsi con gli esseri umani, si sente a suo agio con la natura e con quella che è la sua percezione del tempo, che nessuno può violare né infrangere.
Io sono suo padre e da qualche parte dentro di me esiste uno come lui", p. 120.