Fëdor Dostoevskij, Memorie da una casa di morti (Zapiski iz Mërtvogo doma, 1860-       1862), tr.  Serena Prina, Feltrinelli, 2018.


"La nostra colonia penale era proprio accanto al bastione del forte. Capitava che si guardasse il mondo del buon Dio attraverso le fessure della palizzata: chissà che non si potesse vedere qualcosa? E quello che vedevi era soltanto un piccolo lembo di cielo sopra all'alto terrapieno coperto d'erbaccia, e avanti e indietro lungo il baluardo, giorno e notte, andavano le guardie, e subito pensavi che sarebbero passati anni interi, e tu proprio a quello stesso modo saresti andato a guardare attraverso le fessure della palizzata e avresti visto lo stesso baluardo, le stesse guardie e lo stesso piccolo lembo di cielo, non il cielo che sovrasta la colonia penale, ma un altro cielo, lontano, libero", p. 17.
"Si, in quel luogo era possibile imparare cosa fosse la pazienza […] D'inverno, ci rinchiudevano presto; bisognava aspettare anche quattro ore prima che tutti si fossero addormentati. E fino ad allora, chiasso, baccano, schiamazzi, imprecazioni, rumore di catene, fumo e fuliggine, teste rasate, volti dai lineamenti marcati, abiti a brandelli, tutto insultato, denigrato…già, ne ha di vitalità, l'uomo! L'uomo è una creatura che si adatta a tutto, e ritengo che questa sia la sua definizione migliore", p. 19.
"…non avrei mai potuto immaginare quanto ci fosse di terribile e tormentoso nel fatto che per tutti i dieci anni della mia condanna non sarei mai stato da solo una sola vota, per un solo minuto. Al lavoro sempre sotto scorta, a casa con duecento compagni e nemmeno una volta, nemmeno una volta da solo! D'altronde, c'era ben altro a cui avrei dovuto abituarmi!", p. 21.
"Giungere a patti con una vita del genere era impossibile, ma era arrivato da tempo il momento di riconoscerla come dato di fatto. Tutti i dubbi che mi erano rimasti dentro li celai in me il più profondamente possibile. Già più non vagavo smarrito per la colonia penale, e non mi abbandonavo alla mia angoscia. Gli sguardi selvaggiamente incuriositi dei detenuti non mi seguivano più con un tale artefatta sfacciataggine. Anch'io, evidentemente, stavo diventando loro familiare, cosa di cui ero molto comento", p.127.
"Nel capitolo precedente ho provato a suddividere tutti i nostri uomini in categorie, ma adesso che mi sono ricordato di Akim Akimyć penso che se ne possa aggiungere un'altra. Si tratta della categoria di forzati del tutto indifferenti. Di quelli del tutto indifferenti, ovvero di coloro per i quali sarebbe stato lo stesso vivere tonto in libertà che ai lavori forzati", p. 342.