Philip Roth e la maledizione dello scrittore, ovvero i tormenti di Nathan Zuckerman.

Il bivio della scelta: vivere o raccontare.
Il dilemma dello scrittore: trovarsi al bivio tra vivere e scrivere. In altre parole, dover scegliere tra una dimensione animata da personaggi, per quanto dotati di forte carica simbolica ed emotiva, e la realtà vera, fatta di persone.
Il tema non è tra i più originali in ambito narrativo. Già Sartre, ad esempio, avvertiva attraverso il personaggio di Antoine Roquentin, quanto le due sfere confliggano al punto che "Bisogna scegliere: o vivere o raccontare" (cfr. J. P. Sartre, La nausea – La nausée, 1938- tr. Bruno Fonzi, Einaudi, 2005).
E qualche anno prima, negli Stati Uniti, Thomas Clayton Wolfe affermava:
"Volevo che pensassero che avevo scritto un buon libro e che il mio libro ottenesse la stima e l'onore che avevo desiderato per «lui» - in breve volevo essere un uomo famoso e di successo e allo stesso tempo condurre la stessa oscura e tranquilla esistenza di sempre…",(Thomas Clayton Wolfe, Storia di un romanzo - The Story of Novel, 1935- tr. Igina Tattoni, Fazi, 1997, p. 21).
È questo il dilemma in cui si dibatte Nathan Zuckerman, personaggio creato da Philip Roth e che fa da cassa da risonanza alle tematiche più sentite dallo scrittore statunitense: l'ebraismo e il conflitto tra laicità e ortodossia, la problematicità dei rapporti familiari, le gioie e dolori che, appunto, segnano la vita di uno scrittore.
Nathan è in scena in molteplici romanzi di Roth. Appare nella trilogia americana che include Pastorale americana (1997), Ho sposato un comunista (1998) e La macchia umana (2000). In queste opere la sua funzione è fondamentalmente quella di narrare le vicende che coinvolgono i protagonisti veri dei romanzi: il passaggio dal successo alla disperazione di Seymour Levov (lo "svedese") nella prima opera-con i pregi e i difetti del sistema valoriale americano che fanno da sfondo-, il rapporto fortemente conflittuale tra Ira Ringold e sua moglie Eva Frame nella seconda. Nel terzo libro, Zuckerman testimonia il dramma di Coleman Silk che, da affermato e rispettato accademico, viene ridotto alla condizione di emarginato (non più che una macchia umana) dall'ipocrisia, dai pregiudizi e dalla violenza psicologica e verbale dei suoi colleghi e della comunità accademica in genere. In tutte queste pagine il lettore incontra un Nathan maturo anagraficamente e professionalmente, un uomo sicuro di sé per quanto sempre disponibile al dubbio e alla riflessione, dispensatore di buoni consigli, acuto osservatore degli eventi e dei caratteri umani.
La trilogia di Zuckerman.
La sua evoluzione artistica è, invece, descritta nella cosiddetta trilogia di Zuckerman, che precede le opere appena citate: si inizia con Lo scrittore fantasma (1979) per proseguire con Zuckerman scatenato (1981) e finire con La lezione di anatomia (1983).
I tre romanzi, nel loro insieme, come accennato mettono in luce le principali tappe del percorso artistico di Nathan evidenziandone gli intensi intrecci con la sua famiglia, con la morale ebraica che la distingue e con il senso di appartenenza/non-appartenenza ad essa da parte di Nathan.

L'avvertimento inascoltato di Lonoff.
Lo scrittore fantasma è la narrazione dell'incontro tra il protagonista e lo scrittore E. I. Lonoff- il suo idolo- nel cui appartamento la permanenza di Zuckerman, a causa delle forti nevicate, va oltre i tempi previsti. L'evento avrà conseguenze inaspettate: Nathan, infatti, nell'occasione fa la conoscenza di una giovane donna, Amy Bellette- una sorta di dignitosa concubina di Lonoff- che, alla fine, egli giunge a credere che sia Anna Frank e di cui immagina la storia: Anna è sopravvissuta alla tragedia dell'Olocausto, è fuggita negli Stati Uniti e qui, poi, ha assunto una nuova identità.
Durante i loro lunghi dialoghi, Lonoff avverte Zuckerman delle trappole disseminate lungo il cammino di uno scrittore, quei buchi neri che si celano dietro l'ingannevole abbagliare del successo. Uno di questi tranelli, il più subdolo e letale, è la solitudine – materiale e spirituale- a cui il narratore si costringe attraverso quel dedicarsi giorno dopo giorno a storie e personaggi fatti di pura immaginazione e di sole parole. Lonoff sta parlando proprio dei rischi che si corrono quando si sceglie il raccontare al posto del vivere. Questo monito emerge particolarmente in un frammento tratto da uno dei molteplici dialoghi tra i due protagonisti:
"-Ero, immagino, professionalmente innocente mio malgrado, ma non potevo smettere di asfissiarli parlando delle ore passate sullo spazzaneve dopo quelle passate a tavolino; non era solo che volevo convincere Lonoff del mio spirito puro e incorruttibile: il problema era che volevo crederci io stesso. … «Potrei vivere sempre così», annunciai (Nathan, n. d. A.).
-Non ci provi-, disse lui (Lonoff, n. d. A.) – Se la sua vita è fatta di questo, leggere, scrivere e guardare la neve, lei finirà come me. Trent'anni di fantasia-", (P. Roth, Lo scrittore fantasma- The Ghost Writer, 1979- tr. Vincenzo Mantovani, Einaudi, 2002), p. 25.

Alvin Pepler: un perfetto esempio dei dolori dell'essere uno scrittore di successo.
Zuckerman scatenato è un testo di appena 182 pagine: non moltissime, in effetti, eppure in grado di contenere tutta la complessità delle tematiche privilegiate da Roth.
Qui iniziano a mostrarsi a Zuckerman i primi dolori derivanti dal successo. La perdita dell'anonimato, per dirne una: Nathan è ossessionato dalla gente che lo riconosce per strada e, più ancora, da quei mitomani che, come per punirlo della sua notorietà e dei privilegi che da essa derivano (l'invidia li porta a cogliere soltanto le gioie della fama) lo rendono oggetto delle loro idiosincrasie, dei loro rancori mai sopiti, della loro rabbia inespressa e corrosiva.
È il caso, ad esempio, di un certo Alvin Pepler, che riversa su Zuckerman i suoi sfoghi contro il sistema mediatico che, a suo dire, lo ha ingannato negandogli quanto gli aveva promesso – un impiego da giornalista sportivo- in cambio, per esigenze di showbusiness, del lasciarsi sconfiggere durante un noto telequiz.
Nathan diventa addirittura bersaglio di intimidazioni che coinvolgono anche i suoi familiari quando riceve telefonate da qualcuno che minaccia di rapirgli la madre (lui sospetta che sia proprio Alvin).
La scomoda identificazione tra personaggio e autore.
Nelle stesse pagine emerge, in misura significativa, la conflittualità tra lo scrittore e il suo ambiente domestico: in particolare, tra Nathan e suo padre, il dottor Victor Zuckerman – apprezzato podologo- che lo accusa aspramente di avere indebolito lo spessore morale e religioso della sua famiglia e, conseguentemente, dell'intera comunità ebraica. Tale riprovevole operazione sarebbe avvenuta, secondo Victor, proprio attraverso il romanzo che ha reso famoso Zuckerman, la storia di un certo Gilbert Carnovsky, personaggio diventato tanto popolare quanto il suo creatore (chi deve la propria fama a chi?) e così assimilato dai lettori a Nathan che spesso, in pubblico, lo scrittore è indicato come il signor Carnovsky.
In questi momenti si afferma un ulteriore tema caro a Roth, ovvero l'identificazione tra lo scrittore e i suoi personaggi.
"Bastardo!".
Il rimprovero paterno raggiunge l'apice quando Victor è sul letto di morte: proprio al figlio, che gli è accanto, il dottor Zuckerman rivolge la sua ultima (letteralmente) parola, che per Nathan suona come una condanna senza appello pur se pronunciata con un flebile filo di voce:
"-Bastardo, -disse.
Alludendo a chi? […] Ma quando pronunciò la sua ultima parola, il dottor Zuckerman non stava guardando le cartelle della sua corrispondenza, o in su, verso il volto del suo Dio invisibile: no, guardava gli occhi di quell'apostata di suo figlio" (Philip Roth, Zuckerman Scatenato- Zuckerman Unbound, 1981-, tr. Vincenzo Mantovani, Einaudi, 2014.p. 156).
La maledizione paterna è rinforzata dalle affermazioni di suo fratello Henry, se possibile ancora più dure e tanto dirette da fugare ogni dubbio di Nathan al riguardo:
"-Ha detto «bastardo», Nathan. Ti ha dato del bastardo.
-Cosa?
Tutt'a un tratto, Henry era furioso e piangeva. – Perché tu sei un bastardo. Un bastardo senza coscienza e senza cuore. Cosa significa fedeltà, per te? Cosa significa responsabilità? Cosa significa abnegazione, ritegno…Significa qualcosa? Per te ci si può sbarazzare di ogni cosa! La moralità ebraica, la pazienza ebraica, la saggezza ebraica, le famiglie ebree … Purché faccia ridere, per te tutto fa brodo […]. Per te l'unica cosa che conta è divertirsi. Ma non è così per il resto di noi[…] L'hai ammazzato tu, Nathan […] Con quel libro. Certo che ti ha dato del bastardo!", p. 176.
Un'altra scomoda verità: il romanziere è sempre responsabile di ciò che scrive.
Le accuse paterne costringono Nathan ad elaborare una ulteriore riflessione: fino a che punto- ammesso che ci sia, questo punto- un libro può ritenersi un semplice contenitore di innocue parole tali perché che si limitano a descrivere un mondo puramente fantastico. E quanto, invece, quelle stesse parole generano una realtà fatta sì di immaginazione ma che, poi, acquisisce vita propria e si intreccia con la quotidianità delle persone.
"Un libro, un'opera di fantasia rilegata tra due copertine, che produce una fantasia non scritta, inspiegabile e incontrovertibile invece di fare-stando a ciò che prometteva Aristotele all'università-quello che dovrebbe fare l'arte, cioè dotarci delle norme morali per arrivare a distinguere tra il bene e il male", (cit., p.160).

Il "bastardo" viene somatizzato: La lezione di anatomia.
Il marchio di bastardo peserà non solo sull'animo e la coscienza di Nathan ma anche sul suo corpo. O meglio, il fardello che grava sulla sua coscienza, ad un certo punto, attraverso un processo di banale-quanto drammatica-somatizzazione, andrà ad opprimergli muscoli e ossa. Quel bastardo, rinforzato dall'accusa di Henry, insomma si tramuta in dolore fisico, intenso e debilitante: il rapporto tra colpa ed espiazione attraverso la sofferenza fisica (altro che dolori metaforici dell'esser scrittori!) è il tema centrale di La lezione di anatomia, il romanzo che chiude la trilogia di Zuckerman.
"Eppure quella che aveva non sembrava una malattia che si potesse prendere sul serio. C'era solo quel dolore: al collo, alle braccia e alle spalle, un dolore che gli impediva di camminare per più di qualche isolato e anche di stare fermo troppo a ungo nello stesso posto" (Philip Roth, La lezione di anatomia - The Anatomy Lesson, 1983-, tr. Vincenzo Mantovani, Einaudi, 2006, p. 4).
"Non era leucemia né lupus, né diabete, non era sclerosi multipla, né distrofia muscolare, e nemmeno artrite reumatoide: non era niente. Ma per niente Zuckerman stava perdendo la propria sicurezza, il proprio equilibrio mentale e la propria dignità", (cit., p. 24).
Ritorna il bivio della scelta: la vita o la pagina?
Il male oscuro che lo attanaglia costringe Nathan a fare i conti con la responsabilità che ha come produttore di parole nei riguardi dei suoi lettori e, in particolare, nei confronti della sua famiglia e della comunità ebraica: una dimensione, quest'ultima, a cui egli appartiene che lo voglia o no, che gli piaccia o meno.
In più, deve prendere coscienza dei doveri che ha nei confronti di se stesso e fortemente connessi al monito di Sartre: bisogna scegliere, o vivere o raccontare.
Nathan ha capito che lui ha scelto la seconda opzione e lo ha fatto con innocente (ma non per questo incolpevole) naturalezza: ha scelto la realtà immaginaria credendo, invece, di calarsi nella vita vera.
"Credeva di aver scelto la vita, e invece aveva scelto la pagina seguente. Mentre rubava il tempo per scrivere racconti, non pensò mai di chiedersi cosa il tempo avrebbe potuto rubare a lui…Solo gradualmente il perfezionarsi della ferrea volontà dello scrittore cominciò ad apparirgli come un'evasione dall'esperienza, e i mezzi indispensabili per liberare la fantasia, per esporre, svelare e inventare la vita, come la forma di carcerazione più severa ", (cit. ,p. 145).
La sola pagina ormai ha Nathan sta stretta, tanto da portarlo a chiedersi se proprio la malattia non possa essere la soluzione al suo dilemma.
"E se questo dolore stesse offrendo a Zuckerman l'occasione migliore che aveva mai avuto, una via d'uscita dal luogo dove non sarebbe mai dovuto entrare? Il diritto di essere stupido. Il diritto di essere pigro. Il diritto di essere nulla e nessuno. Invece di solitudine, compagni; invece di silenzio, voci; invece d progetti, ragazzate; invece di altri venti, trenta, quarant'anni di instancabile e problematica concentrazione, un avvenire di diversità, di ozio, di abbandono", (cit., p. 31).
"Vent'anni nelle alte sfere letterarie sono più che sufficienti…Viva l'allegria delle fogne traboccanti! La sentiva la melma, i liquami. La materia. Niente parole, solo materia. Tutto ciò di cui la parola prende il posto. Il più umile dei generi: la vita stessa", (cit., p. 84).
Chi è Milton Appel?
La malattia costringe Nathan, da un lato, a concentrarsi su se stesso, su aspetti pratici della sua vita (camminare, alzarsi dalla poltrona, mettersi a letto, bere, mangiare), dunque su quell'insieme di atti quotidiani necessario alla sopravvivenza. Si tratta di gesti semplici, automatici, banali ma che i suoi dolori hanno espulso violentemente dalla dimensione dell'ordinarietà. Dall'altro, quegli stessi dolori lo obbligano a staccarsi da se stesso, dalla sua vita di scrittore affermato, addirittura dal suo nome: in alcune occasioni, con gente incontrata per caso, Nathan si finge un'altra persona, con un altro nome e che svolge un altro mestiere. In aereo, ad esempio, con il suo vicino di posto, si presenta come l'editore pornografo Milton Appel. E questo scambio di persona prosegue anche con Ricky, la donna che gli fa autista e che se per Milton rappresenta una antagonista (Ricky non ha timori nel dichiarare prima direttamente e poi, stanca delle vanterie del passeggero, esplicitamente che la pornografia la disgusta) per Nathan quella stessa donna, con le sue aspirazioni e la sua visione estremamente pratica della realtà, costituisce uno dei migliori esempi di quella vita vera a cui egli aspira.
Nathan riesce bene in questa farsa, che, in effetti, farsa non è: egli scopre che sganciarsi dal suo nome, dal suo lavoro e dalla complessità della sua storia personale diventa una sorta di terapia sia per la mente che per il corpo. Sono proprio i momenti in cui è Milton Appel che i suoi dolori gli concedono un minimo di tregua, quel sollievo che alcun medicinale e nessun dottore fino ad allora gli ha reso possibili.
La cura: uscire da se stesso.
Nathan vuole correre ai ripari prima che sia troppo tardi, prima che il narrare e il dolore che ne è conseguito lo escludano totalmente e definitivamente dal mondo. Comprende che può farlo solo scegliendo il vivere il che significa non solo stare tra la gente, invece che al chiuso di una camera tutto preso dallo scrivere, ma fare qualcosa di cui si possano vedere gli effetti concreti. Nathan non trova di meglio che iscriversi alla facoltà di medicina nonostante la sua età alquanto avanzata, almeno rispetto a quella di una matricola universitaria. Pur cosciente di questo limite – e di altri- egli è ormai deciso nella sua scelta: la professione di medico gli si mostra come la strada migliore per uscire totalmente e definitivamente dalla trappola che egli stesso, poco a poco, si è creato.
Nathan ha consapevolezza che la soluzione al suo male oscuro nulla ha a che fare con terapie psicologiche e farmacologiche, né con collari miracolosi o altri aggeggi che promettono tutto e mantengono niente. Egli ormai sa bene che, per guarire, non può fare altro che uscire da se stesso: dalla sua vita, dal suo passato.
La cura, insomma, consiste nel dare senso- un nuovo senso- alla sua esistenza. La malattia è allo stesso tempo la conseguenza della mancanza di quel senso e la strada attraverso cui egli potrà trovarlo.
"Cosa impedisce la mia guarigione, quello che faccio o quello che non faccio? Cosa vuole da me questa malattia? O sono io che voglio qualcosa da lei? L'interrogatorio non aveva alcuno scopo pratico, eppure l'unico motivo della sua esistenza era questa continua ricerca del significato mancante. Se avesse tenuto un diario del dolore, l'unica voce sarebbe stata: io", (cit., p. 186).
Il paradosso come soluzione.
Come accade a volte nella vita, la soluzione a dilemmi che appaiono irrisolvibili è nascosta in un paradosso. Accoglierlo, senza sforzarsi di scioglierne la complessità, può condurre lì dove si era persa ogni speranza di approdare.
Forse, non è necessario scegliere tra vivere e raccontare.
Forse, la scelta vera è impegnarsi nell' integrare la vita con la narrazione, e viceversa.
Forse, la soluzione al dilemma è la consapevolezza di dove si è in ogni momento della quotidianità: una consapevolezza costante, profonda quanto capillare, che non concede spazio all'ipocrisia, all'inganno di se stessi, al facile ripiego su quegli alibi tanto cari ai pigri nel corpo e, ancor più, nella mente: non vale la pena vivere (e poi vivono fino a novant'anni), l'inferno sono gli altri ( e poi amano circondarsi, di altri), che ci faccio io in questo mondo (e poi mostrano di saper bene cosa fare, in questo mondo).
Si tratta di una consapevolezza a volte percepita come un fardello. E lo è. Ma è un fardello necessario.
Così è (potrebbe essere) anche per Nathan Zuckerman.