Progettualità e competenze nel processo di cambiamento: dalla precarietà dell'obiettivo via da... alla persistenza dello scopo.

Alfonso Falanga, 25 agosto 2023.


Una riflessione, più che sul perché cambiare, sul come rendere stabile il cambiamento e tradurlo in una vera e persistente trasformazione.

Sommario

-Premessa: cosa intendiamo per cambiamento.

-Punti di vista

-Il cambiamento come dato di fatto: e poi?

-Un obiettivo è sempre un obiettivo via da...

-Quando il "perché" del cambiamento diventa una trappola.

-La fallacia di "smetto quando voglio" e dell'esperienza replicabile.

-La cornice progettuale come antidoto alla regressione.

-Differenze tra obiettivo e scopo.

-Elaborare lo scopo e procedere verso la stabilizzazione dei nuovi standard.

-Tabella riepilogativa i 6 punti.


-Premessa: cosa intendiamo per cambiamento.

Cambiare, per quel che qui ci riguarda, significa assumere comportamenti diversi rispetto a quelli adottati fino a quel momento e ciò per rispondere coerentemente a nuovi bisogni individuali e a nuove e più complesse istanze ambientali.
"Comportamento diverso" non significa che si tratti di una modalità necessariamente opposta a quella precedente, bensì che sia un derivato di un esame di realtà, della consapevolezza del qui ed ora e ciò che si tratti della dimensione personale o sociale oppure professionale. Dunque, cambiare non coincide sempre e comunque con la correzione di errori passati bensì con la presa di coscienza della disfunzionalità dei precedenti comportamenti nei confronti dell'attualità.


-Punti di vista

Le prospettive sull'argomento in questione si possono così riassumere: da una parte, il cambiamento è ritenuto una dinamica tanto naturale da costituire un fondamento dell'essenza stessa della persona - e di una collettività- e, perciò, rappresenta una condizione indispensabile alla evoluzione materiale e immateriale del soggetto che ne è protagonista.
In quest'ottica, resistere al cambiamento è un atto contrario al normale svolgersi della vita, un ostacolo alla crescita del singolo individuo così come di un gruppo. La resistenza al cambiamento, perciò, è illogica e dannosa.  Cambiare, invece, è segno di intraprendenza e di coraggio: si tratta di un processo che in automatico attribuisce  a chi ne coinvolto qualità sempre e comunque positive. 
Di segno contrario è quella prospettiva secondo cui la condizione naturale a cui un singolo o un collettivo aspirano è, invece, la quiete, sintetizzabile in stabilità, equilibrio, reiterazione fluida e tranquillizzante dello standard. In questa prospettiva, è il cambiamento a risultare contro natura e le resistenze, pertanto, sono atti coerenti con il bisogno umano di prevedibilità, semplificazione, agio. Tant'è che ben si sa come si resista al cambiamento -attraverso elaborati processi mentali- anche quando le circostanze richiedono un mutamento di rotta (i cosiddetti bias, da alcuni considerati-più che degli errori compiuti dalla mente-dei significativi tratti di umanità). Ecco, allora, che il cambiamento non è una scelta ma una costrizione: si cambia se e solo se non se ne può fare a meno.

E' un'ottica, questa, secondo cui il cambiamento è l'abbandono di una condizione di stabilità, ovvero di una situazione nota, anche se disagevole, per l'accedere forzato a una nuova dimensione ignota e disorientante, pur se da essa se ne potrà ricavare un vantaggio: perciò si tratta di un processo che poco ha a che fare con motivazione, volontà, coraggio, scelta. Il cambiamento, in quanto necessario, ha origine da un atto decisionale obbligato. Si decide proprio perché mancano volontà e motivazione a cambiare e latita il coraggio necessario per abbandonare la condizione di comfort. Ciò vale anche quando si sa-razionalmente- che non si può fare a meno di cambiare. Semmai, volontà, motivazione e coraggio verranno dopo, quando cominceranno a mostrarsi gli esiti positivi del passaggio dalla precedente condizione a quella nuova. Quando quest'ultima inizierà ad essere percepita meno estranea, meno inquietante, meno obbligata. Quando non si rimpiangerà più quel che si è abbandonato e, tutt'al più, se ne avrà un nostalgico ricordo.

-Il cambiamento come dato di fatto: e poi?

Il discorso sull'urgenza del cambiamento l'abbiamo sentito ripetere tante di quelle volte, particolarmente negli ultimi anni, che ormai suona come un luogo comune. Eppure, non per questo è men che vero che siamo alle prese con l'esigenza di modificare abitudini, strategie e stili comportamentali e, ancor di più, con il rendere stabili i nuovi modelli d'azione - che riguardino il lavoro o il sociale oppure il privato-per tradurli, infine, in prassi quotidiana. Si tratta di una "scelta" obbligata imposta dal rapido mutare dell'ambiente in cui viviamo, che sia quello del lavoro così come i contesti sociali e personali.
Stando così le cose, non è mai troppo riflettere sulle possibili strategie da adottare per consolidare il superamento delle zone di comfort.
Al riguardo, la premessa è che non sia tanto complicato- pur se non del tutto agevole- realizzare il cambiamento quanto far sì che, una volta affermatosi quantomeno nei suoi aspetti più significativi, esso risulti persistente. Si tratta, allora, di elaborare e poi praticare un percorso che traduca l'innovazione in abitudine, che faccia della "novità" una vera e propria zona di comfort ma questa volta funzionale e generatrice di efficacia ed efficienza. Che, insomma, permetta al cambiamento di assumere i connotati di una definitiva trasformazione (che resta sempre e comunque da monitorare, verificare, eventualmente "aggiustare").

-Un obiettivo è sempre un obiettivo via da...

Cambiare si può. Specialmente quando si deve. Quando è inevitabile. Proprio come Steinbeck fa dire a Tom Joad in Furore: "Non serve fegato per fare qualcosa quando non puoi fare nient'altro" (John Steinbeck, Furore -The Grapes Of Wrath, 1939- tr. Sergio Claudio Perroni, Bompiani, 1922, p. 308).
Quel che intende dire Tom è che se le cose non vanno come dovrebbero e come si vorrebbe, allora si agisce di conseguenza. Non è agevole, certo. I risultati non sono immediati, probabilmente. Ma lo si fa: non c'è scelta. Non è una scelta. Ci si muove, così, verso un obiettivo via da…. approdando, infine, ad una meta che consiste "semplicemente" nell'allontanarsi da una condizione sfavorevole, insostenibile, improduttiva. Ci si muove sulla base della paura, è vero: ma la paura serve proprio a produrre una risposta utile a una minaccia. Per cui adottare la strategia via da…, nella fase in cui il rischio si manifesta nella sua forma più acuta, è cosa buona. È una reazione sana. E' il primo e fondamentale passo verso l'uscita da una impasse. Si gioca in difesa, perseguendo l'obiettivo via da..., certo, ma solo ben difesi si può poi attaccare. 

Di fatto, ogni volta che si tende verso una nuova meta ci si muove inevitabilmente verso un obiettivo via da…Ovvero, si agisce per allontanarsi dalla precedente condizione perché disagevole, improduttiva e frustrante. Certo, in alcune circostanze, non particolarmente critiche e conflittuali, il cambiamento acquisisce i connotati di una scelta: si agisce perché si sceglie di agire e non perché si è costretti dalle circostanze a farlo. Ci si pone, in tal caso, già in prima battuta, un obiettivo verso… (che anche in tal caso, comunque, include l'andare via da...).
Lo scenario a cui qui ci stiamo riferendo è, in ogni caso, uno scenario conflittuale da cui si è obbligati a "scappare" (la condizione più realistica in cui ci troviamo collocati, quando si tratta di cambiare, nel corso della nostra esistenza). Pertanto, diventa inevitabile, anzi necessario e doveroso, puntare all'obiettivo via da… : in questo caso, quel che conta, è uscire dalla condizione improduttiva.   
Una volta centrato il bersaglio, però, la partita non è finita. Anzi, è appena all'inizio.
Giunti alla meta, infatti, si presenta una questione di particolare rilevanza: bisogna tradurre l'obiettivo via da… in un obiettivo verso…. Si tratta, in sostanza, di inserire il motivo del cambiamento (della sana fuga) in un progetto di più ampio respiro che preveda una meta a medio e a lungo termine. Vale a dire, è necessario passare da un percorso dove motivo e obiettivo del cambiamento coincidono - e, insieme, esauriscono il percorso-, in un processo dove motivo, obiettivo, priorità, strategie, strumenti e motivazioni sono invece ben distinti e, allo stesso tempo, si integrano in una cornice progettuale in cui si inserisce il percorso stesso. Una cornice, insomma, dove l'obiettivo via da… faccia da punto di partenza e non sia l'approdo finale di un cammino che si riduce alla fuga dalla minaccia.

-Quando il "perché" del cambiamento diventa una trappola.

Raggiunta la condizione via da... non basta più agire sulla base del principio "Bisogna cambiare perché quel che si faceva prima ora non funziona" affinché il cambiamento si consolidi. Anzi, se non si inserisce il motivo della fuga in una prospettiva più ampia, proprio quel motivo diventa l'elemento bloccante: una volta risolta la criticità è forte il rischio che ci si rilassi, che ci si senta appagati, che si torni ad assumere atteggiamenti del passato ricadendo, così, nella stessa condizione che ha generato la criticità. E si ricomincia, producendo un circolo vizioso di "alti" e "bassi" in cui, progressivamente, l'"alto" è sempre meno alto e il "basso" sempre più basso: quando si cambia e poi si fa un passo indietro, non si torna mai al punto di partenza ma si va ben al di là. La regressione non riconduce alle origini: va oltre, più  indietro. 



Un esempio tratto dalla quotidianità è il "dimagrimento a elastico": è la circostanza in cui chi perde peso lo fa prevalentemente per questioni di salute o estetiche, dunque ragioni lodevoli e legittime, importanti ai fini della qualità di vita ancorché specifiche. Il dimagrimento, in tal caso, anche se necessario e impegnativo, non è inserito in un processo più vasto di acquisizione di un nuovo- e più salutare e più persistente – stile di vita. Così facendo, una volta giunti a un calo di peso pur significativo, che ripristina buone condizioni di salute e conduce ad un più gradevole aspetto fisico, il rischio di recuperare tutti i chili persi, e anche più, è alto. E quando il rischio diventa realtà, allora si cerca di correre ai ripari...per poi, appena la bilancia segna qualche chilo in meno, mettersi a tavola e riprendere le vecchie abitudini. E così via, alimentando il circolo vizioso del dimagrimento, appunto, a elastico. E ad ogni recupero, ci si trova sempre con qualche chilo in più rispetto al punto di partenza. Fino a quando si ritiene di aver perso la partita, che perciò è inutile continuare a sacrificarsi, a tavola.
Una dinamica simile può riguardare anche una collettività, ad esempio un'azienda impegnata a risolvere una situazione di stagnazione produttiva o, addirittura, di recessione. Una volta risolta la crisi, dunque realizzato l'obiettivo via da..., se al management, in modo particolare, manca uno sguardo lungo che includa non solo l'incremento a breve termine della produttività ma anche identità e cultura aziendali, che non elabori progetti a lungo termine per strutturare un'azienda che sia, da un lato, proiettata nel futuro e, dall'altro, costantemente ancorata all'attualità, il rischio di regredire verso condizioni stagnanti è forte.

-La fallacia di "smetto quando voglio" e dell'esperienza replicabile. 

 Quando manca una cornice progettuale la regressione, insomma, è in agguato. A darle sostegno è, spesso, alimentata la fallace convinzione che se si è cambiati una volta lo si può fare quando si vuole: ovvero che ci si può concedere di rilassarsi tanto "smetto quando voglio" che, ad esempio nel caso del dimagrimento a elastico, si traduce in "smetto di ingozzarmi quando voglio, l'ho fatto una volta e posso rifarlo". Per il management aziendale, invece, si traduce in "Siamo usciti dalla crisi una volta, lo faremo ogni volta che sarà necessario". Tale distorsione si poggia su un ulteriore fallacia, ovvero che l'esperienza passata sia sempre e comunque riproponibile, trascurando, così, i mutamenti del contesto in cui si agisce, fattori interni (nel caso dell'azienda, ad esempio, modifiche strutturali, riduzione delle risorse disponibili), dinamiche fisiologiche (nel caso del dimagrimento), variabili psicologiche e cognitive (demotivazione, calo di autostima, frustrazione). Tutti fattori che possono rendere quella stessa esperienza, pur se positiva, improponibile nell'attualità.
Tale distorsione vale per qualsiasi forma di cambiamento e in qualsiasi settore. E più il cambiamento consiste in una rivisitazione di comportamenti radicati e significativi, più il rischio della regressione è alto. Più sono in ballo abitudini antiche più "smetto quando voglio" è dietro l'angolo.

-La cornice progettuale come antidoto alla regressione.

 Al fine di evitare le dinamiche a elastico è opportuno elaborare un percorso di trasformazione che preveda una serie di tappe ben precise. Queste acquisteranno senso e significato solo se riferite a uno scopo (o, se si preferisce un anglicismo, mission e, meglio ancora, purpose.  Qui alterneremo, per comodità, scopo con purpose).
Individuare lo scopo è la premessa al cammino verso la stabilizzazione del cambiamento. Il purpose è la bussola che indica la strada da percorrere verso questa meta illuminandone le asperità e segnalando le tappe intermedie. 

-Differenze tra obiettivo e scopo.

   E' opportuno, a questo punto, fare una riflessione su connessioni e differenze tra obiettivo e scopo. In sintesi:
 1. Il purpose è l'esito della traduzione di un obiettivo via da...in un obiettivo verso... che mai si concretizza. Questa mancata definizione non è un limite bensì costituisce la caratteristica che distingue lo scopo. Il purpose va oltre l'obiettivo: lo include, lo valorizza ma non si esaurisce in esso.
   
2. Lo scopo, a differenza dell'obiettivo, non conosce conclusioni: ha un' origine ma non una fine. Non c'è uno scopo via da...Lo scopo è sempre e soltanto verso...: è procedere in direzione di un orizzonte che è irraggiungibile non perché inaccessibile, misterioso, fatto di solo desiderio. La sua inaccessibilità significa, invece, che esso sempre si rinnova.
3. Elaborare uno scopo e impegnarsi per concretizzarlo, nonché verificarlo momento per momento, costituisce un processo che può durare un giorno così come può coprire la vita intera di una persona (di un'azienda, di una collettività).
4. L' obiettivo (che è sempre obiettivo via da…) prevede sì competenze, metodi e strategie ma, allo stesso tempo, chiama in causa fortemente le componenti personali: attitudine, carattere, emotività, aspettative. E' in più legato alle circostanze, dunque alla casualità (leggi: fortuna).
5. Elaborare e perseguire lo scopo, invece, senza che ciò voglia dire trascurare il valore delle componenti personali, richiede l'adozione di metodi e strategie, implica progettazione e monitoraggi. Dunque, si poggia su competenze apprese, sperimentate, rinforzate. Non è del tutto svincolato dalla contingenza, ne è però condizionato in misura ridotta rispetto all'obiettivo.
6.  Lo scopo prevede definizione, assunzione e rispetto di ruoli, che vuol dire consapevolezza dei compiti, delle strategie, dei perché, del dove si va e del come si va. Scopo significa, allora, apprendimento, riflessione, comunicazione.
7. Uno sguardo rivolto esclusivamente e pervicacemente sull'obiettivo conduce, paradossalmente, a procedere sì in avanti ma guardando indietro.  Muoversi fissando mente e corpo sull'obiettivo significa concedersi a qualcosa che si è stabilito in passato: in tale condizione, il rischio di non accorgersi dei mutamenti del presente è forte. Il passato diventa - inconsapevolmente- il riferimento privilegiato. Si scivola progressivamente verso l'obsolescenza, credendo di innovarsi.
Lo scopo, invece, costringe a partire sì dal passato ma per calarsi nel presente al fine di proiettarsi nel futuro. Il purpose fa del passato un punto di partenza - qual è e quale deve essere- e non un approdo.
8. Nel caso di un'organizzazione, obiettivo e scopo impongono stili di leadership le cui differenze meriterebbero un discorso a parte. Al momento, ci basta dire che:
      a) concentrarsi sull'obiettivo richiede una leadership orientata al risultato, tesa a valorizzare sì strategie e competenze ma, essenzialmente, che esalta le qualità personali.
    b) tendere allo scopo, produce una leadership centrata sulla progettualità, sulle competenze, su metodi e strategie.
Il primo tipo di leadership rischia di essere selettivo. Il secondo, al contrario, è una modalità inclusiva, che dà spazio a tutti, che valorizza non ciò che è innato ma quel che tutti possono apprendere, sperimentare, eventualmente modificare.







-Elaborare lo scopo e procedere verso la stabilizzazione dei nuovi standard.

Definire lo scopo e il percorso che conduce alla sua realizzazione richiede, quale punto di partenza, la formulazione di alcuni interrogativi. Il primo è di ordine generale, i successivi riguardano, invece, contesti specifici ovvero a) personale, b) professionale, c) aziendale. Si tratta di ambiti che certamente presentano forti connessioni tra loro anche se è possibile individuarne uno a cui riferirsi in maniera particolare. 
La domanda iniziale è così articolata:
1. Risolto il bisogno immediato, in quale direzione voglio orientare il cambiamento? Vale a dire, qual è il mio obiettivo verso…?
2. Quali condizioni materiali e immateriali, generate perseguendo l'obiettivo verso…, mi renderanno effettivamente soddisfatto accrescendo il mio senso di autostima ed il mio livello motivazionale?
La risoluzione di tali interrogativi è il riferimento per sciogliere i quesiti correlati ai contesti specifici.
Dalla combinazione tra i due livelli logici in cui sono poste le domande deriva questo modello:
a) dimensione personale:
-che tipo di persona voglio essere? Quali sono le mie nuove priorità?
Quale voglio che sia il mio nuovo stile di vita rispetto a me stesso (ad esempio salute e rapporto famiglia/lavoro) e alle mie relazioni con gli altri)?
b) dimensione aziendale:
-che tipo di azienda voglio che sia la mia azienda? 
Su quali nuovi valori poggia il clima aziendale? Quali sono le mie nuove priorità come manager e leader?
c) dimensione professionale:
-che tipo di professionista voglio essere? Qual' è il mio nuovo stile relazionale (ad esempio con i colleghi e/o i clienti)? Quali sono le mie nuove priorità come professionista?
Questi semplici interrogativi consentono di mantenere l'attenzione costantemente sul processo e sui suoi risvolti pratici.

-Tabella riepilogativa in 6 punti.

1. Qual è il mio scopo, ovvero chi voglio essere?
2. Qual è la mia motivazione, ovvero cos'è per me attraente nella nuova condizione raggiunta realizzando l'obiettivo via da…?
3. Quali sono le mie nuove priorità?
4. Cosa ritengo che accadrà che mi segnalerà l'avvenuta trasformazione?
5. Cosa ritengo che accadrà che mi segnalerà una regressione?
6. Cosa prevedo che farò in quest'ultima circostanza?

-Conclusione

   Ormai il cambiamento, nelle diverse dimensioni sociali e personali, è avvenuto, forse per costrizione più che per scelta: sia come sia, è cosa fatta. O dovrebbe esserlo. Non lo è ancora il processo che lo rende stabile. Non lo è, non può esserlo, non deve esserlo. E', questo processo, un insieme di attività che ha - deve avere- molteplici inizi e mai una vera fine. E' proprio la sua infinitudine che lo rende utile, concreto, efficace.