Riconoscere e gestire la complessità: a lezione dal signor Palomar.
Alfonso Falanga, 26 aprile 2023.

Già in altre occasioni ho accennato all'assurdo come un evento, di ordine sociale o naturale, del tutto incoerente con lo standard quotidiano e, perciò, distante da quanto siamo in grado- e abbiamo voglia e capacità- di prevedere e di sostenere emotivamente.
Accade, altre volte, che un fatto lo si viva come assurdo in quanto presenta un grado di complessità che ci disorienta, che non afferriamo, che non siamo in grado di incorniciare all'interno del nostro rassicurante sistema di convinzioni, idee e opinioni.
Nel tentativo di comprenderlo, e ripristinare così il nostro equilibrio emotivo, siamo portati a semplificare ciò che semplificabile non è. Anzi, più il grado di complessità è rilevante, più spingiamo verso la riduzione della molteplicità delle varabili ad una sola, scelta tra quelle a cui ci sentiamo più affini. E la nostra mente, come ci indicano gli psicologi e gli esperti del comportamento umano, è alquanto abile in questa attività: vedasi, ad esempio, la teoria dei bias.
Anche gli artisti si sono spesso interrogati sulla complessità della realtà e sulla nostra tendenza, appunto, a ignorarla, a girare lo sguardo di fronte alle sue sfaccettature che ne complicano la percezione chiara, immediata e rassicurante.
Nell'ambito della letteratura italiana uno degli autori più attenti a quest'argomento è Italo Calvino.
Calvino utilizza l'immaginazione per esplorare i molteplici aspetti della realtà e lo fa con più efficacia che se usasse la sola razionalità. Le sue riflessioni derivano da una capacità di osservazione che si estende sui fatti sviscerandone i lati più reconditi, quelli che più risultano sfuggenti all'occhio che si rivolge – per scelta o per incapacità- solo allo strato visibile di quei fatti. Senza che per questo egli svaluti il valore di quanto appare in superficie, così come dichiara il signor Palomar:
"Solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose-conclude-ci si può ci si può spingere a cercare quel che c'è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile" (Italo Calvino, Palomar, 1983, Mondadori, 2021, p. 51).
L'autore ha piena consapevolezza delle regole strutturali del linguaggio-e di quanto sia possibile osare oltre le regole senza sfociare nella sterile trasgressione, quella fine a se stessa, quella giusto per…- e delle molteplici possibilità di combinare le parole per liberarne la forza evocativa e il potere simbolico.
Italo Calvino dispone, quale ulteriore grimaldello necessario per scardinare le ostinate apparenze dei fatti, una potenza immaginativa (verrebbe da dire visionaria, se questo termine non richiamasse un pensiero e un linguaggio onirici, deformanti e autoreferenziali) (Calvino, invece, esplora questa realtà e lo fa avendo sempre come riferimento il lettore e una funzione pragmatica del testo), una preziosa risorsa che gli consente di proiettare lo sguardo verso dimensioni a cui, come accennato, la logica non può arrivare.
Un esempio al riguardo è, appunto, Palomar, un libro che mette insieme alcuni tra i numerosi articoli pubblicati dallo scrittore nella sua rubrica "L'osservatorio del signor Palomar", sul Corriere della Sera tra il 1975 e il 1977.
L'opera prende forma attraverso tre capitoli (I. Le vacanze di Palomar, II. Palomar in città, III. I silenzi di Palomar), con relativi paragrafi in ognuno dei quali il protagonista riflette su un aspetto specifico della realtà per comunicare, così facendo, la sua più ampia visione di quella realtà, di come egli si ponga nei suoi confronti, di quali siano i livelli logici da cui procede per analizzarla. Il nome del personaggio, come dichiara lo stesso autore (cfr. Presentazione, in op. cit., p. V), viene da Mount Palomar, il famoso osservatorio astronomico – uno dei più importanti al mondo- della California.
Lo sguardo che signor Palomar distende sulla realtà è uno sguardo attivo e non da semplice e passivo contemplatore: la sua osservazione ha uno scopo, è tesa a cogliere il significato non tanto di un singolo elemento bensì sia del rapporto tra i molteplici elementi che del suo, di rapporto – filosofico, emotivo, cognitivo-, con quei medesimi elementi.
Il signor Palomar, già dalle pagine del primo paragrafo, dove si dedica alla lettura di un'onda, suggerisce alcuni spunti di riflessione di estrema rilevanza che rinviano al già citato tema della complessità. La premessa è quella solita: gli eventi, ogni evento, presenta un grado di complessità che non lo rende immediatamente decifrabile e, dunque, lo destina ad essere inquietante.
Palomar non ha bisogno di accogliere nel suo sguardo l'insieme delle onde, bensì gli è sufficiente concentrare la sua osservazione sulla singola onda, sul singolo fatto, che richiama per affinità-pur nella sua particolarità- tutti gli altri elementi dell'insieme.
"Infine non sono le onde che lui intende guardare, ma un'onda singola è basta: volendo evitare le sensazioni vaghe, egli si prefigge per ogni suo atto un oggetto limitato e preciso" (Lettura di un'onda, in Palomar sulla spiaggia, p. 5).
Gli è più che sufficiente: quell'unico elemento, allo sguardo attento dell'osservatore, rivela una complessità che rinvia alla complessità dell'intero sistema. Non si può comprendere quell'onda, infatti, se non si tiene conto dei processi che, nella relazione con le altre onde, contribuiscono a generarla proprio così com'è.

Allo stesso tempo, questa lettura resta parziale se non la si arricchisce con l'osservazione delle dinamiche che essa genera nelle altre onde. È una concatenazione di micro-fenomeni in cui ogni singolo fenomeno mantiene la sua specificità pur essendo del tutto simile agli altri elementi dell'insieme.
"…un'onda è sempre diversa da un'altra onda; ma è anche vero che ogni onda è uguale a un'altra onda, anche se non immediatamente contigua e successiva…" (cit., p. 6).
Palomar aggiunge un'ulteriore considerazione: complessità e semplificazione hanno a che fare con l'uso del tempo ovvero con la nostra tendenza a contrarlo e ciò nell'illusione che far presto sia in automatico sinonimo di efficacia e di efficienza, che coincida – per forza- con fare la cosa giusta: che, conseguentemente, semplificare sia preferibile a riflettere, approfondire.
In quest'ottica, semplificare soddisfa il criterio del fare in fretta ovvero di ingabbiare, il prima possibile, la comprensione della realtà in un modello semplice e rassicurante al fine di ritrovare, il prima possibile, quella stabilità-per quanto illusoria comunque ambita, necessaria, difesa costi quel che costi- messa in crisi dalla complessità dei fatti.
Il signor Palomar, però, è costretto a riconoscere che, per quanto lo si rincorra, quel modello è instabile: appena lo si assembla, emerge un particolare nuovo, qualcosa he rinnova la complessità e che rende vana la fretta. Egli, infatti, proprio ogni volta che ritiene di aver capito la dinamica delle onde, deve fare i conti con "…qualcosa di cui non aveva tenuto conto", (cit., p. 8). Nel caso specifico, si tratta di "…un'onda lunga che sopravviene perpendicolare ai frangenti e parallela alla costa, facendo scorrere una cresta continua e appena affiorante", (cit., p. 8).
Il destino del protagonista è rivedere continuamente la sua interpretazione dei fatti, rimettendo le carte in tavola appena crede che il quadro sia chiaro e completo. La semplificazione si rivela una diretta discendente della fretta: se così non fosse, se Palomar non avesse fretta di completare il suo modello, il suo sguardo sarebbe in grado di cogliere l'immediato e, allo stesso tempo, quanto ancora non è visibile. Il suo sguardo risulterebbe sì uno sguardo contemplativo ma di una contemplazione non passiva, bensì "…in grado di padroneggiare la complessità del mondo riducendola al meccanismo più semplice" (cit. p. 8).
Dunque, la semplicità è possibile, non lo è la semplificazione.
Da cui deriva: la semplicità favorisce la comprensione della realtà. La semplificazione, invece, la inibisce.
Non si può non tenere conto di queste considerazioni in un'epoca, la nostra, in cui gli eventi di cui siamo protagonisti- a livello individuale e collettivo, a livello locale e a quello globale- presentano un grado di complessità oltremodo elevato e inquietante. Un momento, perciò, in cui si è tentati fortemente dalla semplificazione con tutte le distorsioni interpretative, e i rischi di incorrere in scelte sbagliate, che ne derivano.
In un paragrafo successivo, intitolato La spada del sole (cit., p. 13), l'autore, attraverso il suo personaggio, riflette sul rapporto tra l'uomo e la realtà e di come essa acquisti significato proprio attraverso questo rapporto.
Il signor Palomar, all'inizio, si chiede, mentre nuota nel mare pomeridiano in cui "…il riflesso del sole diventa una spada scintillante nell'acqua che dall'orizzonte si allunga fino a lui", (cit., p. 13), se la natura effettivamente esiste senza di lui, ovvero senza che il suo sguardo ne colga (o ne generi) le forme e i colori. Egli ha difficoltà ad immaginare un mondo che sia oltre il suo sguardo e che esista indipendentemente da lui, quel mondo "…sterminato di prima della sua nascita, e quello bn più oscuro dopo la sua morte; cerca d'immaginare il mondo prima degli occhi, di qualsiasi occhio; e un mondo che domani per catastrofe o lenta corrosione resti cieco. Che cosa avviene (avvenne, avverrà) mai in quel mondo?", (cit., p. 17).
Queste riflessioni sembrano rinviare ad immagini oniriche, surreali o irreali, comunque appartenenti ad un dialogo che l'autore fa esclusivamente con se stesso in un momento di egoistico solipsismo.
Così non è. Si tratta, al contrario, di parole rivolte all'esterno - e, perciò, indirizzate al lettore, a noi- e con cui Palomar ci invita a non dimenticare il rapporto indissolubile che abbiamo, che ci piaccia o no, con il mondo che abitiamo, un mondo che forse non esisterebbe senza il nostro sguardo e la cui sostanza dipende da noi, dai nostri sensi, da tutte quelle nostre facoltà - mentali e fisiche- con cui lo sperimentiamo.
Allo stesso tempo, Palomar ci avverte che se c'è questa dipendenza essa è reciproca: anche l'uomo, infatti, non esisterebbe senza quel mondo. Si tratta di un tema oggi fortemente sentito da gran parte della popolazione mondiale ovvero quello della responsabilità dell'uomo nei confronti del proprio ambiente.
Più avanti, nelle poche ma intense righe di Il fischio del merlo (cit., p. 22), il protagonista si interroga sui limiti-cognitivi e comportamentali- a cui è costretto dall'incapacità di riconoscere e distinguere tra loro gli eventi naturali, una incapacità vissuta come colpevole inadeguatezza. Egli si rammarica di essersi fin troppo affidato, per spiegarsi la realtà, al solo sistema classificatorio e scientifico, che però si è rivelato insufficiente a comprendere la complessità che è – inevitabilmente - negli eventi (ancora una volta fa la sua comparsa la questione della complessità). Il sapere moderno, ricorda a se stesso il signor Palomar, non basta a leggere l'indefinibile, ovvero "… il modulato, il cangiante, il composito" (cit., p. 23).
È a questo punto che la riflessione abbraccia anche il tema del linguaggio e della comunicazione. Il sapere moderno, ricorda il protagonista, per quanto ampio e articolato, è generico. Proprio per questo è inadeguato a cogliere e dare senso e significato ai particolari. Si tratta di un tipo di conoscenza che non può sostituire quel sapere che si acquista solo attraverso l'osservazione diretta e la trasmissione altrettanto diretta, dunque orale, degli esiti di tale osservazione.
Palomar si rammarica della sua ignoranza che non gli consente di riconoscere il significato delle diverse tonalità del fischio del merlo. Egli non può fare altro che attribuire loro un senso solo mediante una sua interpretazione, che potrebbe anche risultare arbitraria. Eppure, ad un certo punto, egli si domanda:
"Ma i dialoghi umani sono forse qualcosa di diverso?", (cit. p. 24).

Di fatto, anche la comunicazione tra gli individui poggia su interpretazioni e mai su contenuti certi: sembra al signor Palomar (o meglio, egli si chiede se possa essere così) che tutta la realtà sia tesa a rendersi linguaggio e ciò allo scopo di farsi comprendere dall'uomo: un'operazione, questa, che genera una comunicazione ininterrotta- tra il mondo e l'individuo e tra gli individui stessi- una comunicazione dove i silenzi posseggono lo stesso valore delle parole. Anzi egli auspica che proprio i silenzi costituiscano la chiave di lettura per giungere a ciò che le parole non possono dire. Che il non detto, dunque, chiarisca il detto e non viceversa.
Sono quesiti a cui è arduo rispondere, Palomar ne è consapevole. Egli e il suo interlocutore del momento, il merlo, non possono che continuare a fischiare e a interrogarsi, perplessi. (cit., p. 27).
Nelle pagine successive il protagonista dirige la sua attenzione sia su elementi naturali e facilmente accessibili all'uomo, come ad esempio un prato, sia su quelli raggiungibili, almeno alcuni, solo attraverso lo sguardo: la luna, le stelle e i tre pianeti visibili ad occhio nudo, Marte, Giove e Saturno. Da ciò, Palomar trae una ulteriore conferma alla sua convinzione secondo cui lo sguardo dell'uomo, e il metodo di pensiero su cui quello sguardo poggia, sono insufficienti a comprendere la complessità della realtà. Che sia il semplice prato o, appunto, i corpi celesti.

Il prato…Palomar è costretto a riconoscerne la complessità attraverso la semplice, solo in apparenza, attività di sradicamento delle erbacce. Più esattamente, della ostinata gramigna, che per essere, forse, sconfitta necessita di un gesto che non è per nulla banale, scontato, fatto con disattenzione, indifferenza, come se fosse un gesto tra i tanti. Palomar lo ha imparato a sue spese ed è, dunque, in grado di delineare minuziosamente i vari segmenti di quell'atto alquanto particolare e complesso.
"Occorre con un movimento ondeggiante della mano impossessarsi di tutta la pianta e sfilare delicatamente le barbe dalla terra…Poi gettare l'intruso in luogo dove non possa rifare radici o spargere seme…", (cit., p. 29).
La fatica, la pazienza e la strategia non bastano. La gramigna continua a spuntare: è impossibile estirparla tutta, sradicarla definitivamente. Se ne individuano sempre altri ciuffi ostinati e dispettosi che sembrano spuntare come per farsi beffa degli sforzi del protagonista. Proprio come la realtà, a volte, si fa beffe di noi appena riteniamo di averla compresa, spiegata, ingabbiata in uno schema chiarificatore e, per noi, tranquillizzante. Per poi essere contraddetti da quell'evento che finiremo per assurdo. Perché la realtà è proprio come il prato del signor Palomar, che di primo acchito "…sembrava richiedere solo pochi ritocchi" (cit., p. 29), e si rivela invece "… una giungla senza legge" (idem).
Il protagonista, poi, dedica la sua attenzione al cielo, ai pianeti, alle stelle. Le sue riflessioni, ancorché attente e profonde, nulla chiariscono se non che il sapere scientifico, il calcolo, le previsioni basate sulla logica non bastano e che, anzi, più si osserva per capire e meno si capisce. Ciò in quanto la realtà, come il prato che contiene erba buona ed erba cattiva in un intreccio che rende impossibile distinguere l'una dall'altra, include, oltre al visibile, il non visto: è proprio il non visto, come la dispettosa gramigna che vanifica ogni tentativo di estirpazione, che rende incerta qualsiasi certezza.
È un fenomeno, questo, che inquieta Palomar, così come inquieta tutti noi quando crediamo di aver compreso e facciamo di questa comprensione la base delle nostre scelte: a volte, in quello stesso momento, una vocina interiore ci avverte che qualcosa, comunque, ci sta sfuggendo. E sarà con quel qualcosa, di così indefinibile, con cui, probabilmente, prima o poi, dovremo fare i conti.
Se non ci si può fidare del visibile, allora, su cosa puntare per non rischiare? È proprio questa la domanda che si fa Palomar.
"Se i corpi luminosi sono carichi di incertezza, non resta che affidarsi al buio, alle regioni deserte del cielo. Cosa può esserci di più stabile del nulla?", (cit., p. 43).
La sua conclusione, apparentemente pessimista o semplicemente cinica, spiazza i più fiduciosi:
"Eppure anche del nulla non si può essere sicuri al cento per cento", (idem).
Palomar cerca un equilibrio, in natura e nella vita, che, però, stenta a trovare. E, quando crede di averlo trovato, quella labile stabilità subito svanisce. Così è anche quando osserva gli storni volare, in ordine compatto, in cielo. "Rassicurante visione, il passaggio degli uccelli migratori, associato nella nostra memoria ancestrale all'armonico succedersi delle stagioni; invece il signor Palomar sente come un senso d'apprensione. Sarà perché questo affollarsi nel cielo ci ricorda he l'equilibrio della natura è perduto? O perché il nostro senso di insicurezza proietta dovunque minacce di catastrofe?", (cit., p. 57).
Sembra che questo costante rincorrere le rassicurazioni sia il destino di Palomar, così come è il destino di tutti noi.
Le riflessioni del signor Palomar, nel loro insieme, ci conducono a pensare che la complessità non è qualcosa di necessariamente negativo, fosse solo perché, ci piaccia o no, essa è una qualità ineliminabile dalla realtà (anche da quella costituita dal concatenarsi dei comportamenti umani). Le sue argomentazioni, anzi, suggeriscono che il senso della realtà coincide proprio con la sua complessità – la complessità è reale, è vita- e che, infine, la complessità non è nell'elemento in sé (evento, comportamento, oggetto) ma nel rapporto tra i diversi elementi.
Palomar, in conclusione, ci avverte che la semplificazione è spesso più rischiosa del prendere coscienza della stessa complessità: quando forziamo la mano agli eventi, volendoli a tutti i costi imbrigliare in una griglia semplificativa, ne derivano errori interpretativi e scelte sbagliate.