Fëdor Dostoevskij, Il sottosuolo (1864), tr. Silvio Ferrigni, in Il romanzo del sottosuolo, Feltrinelli, 1974.
"Sono un uomo malato…sono un uomo cattivo. Un uomo che non ha nulla di attraente. Credo di essere malato di fegato. Del resto di questa mia malattia non ne capisco niente, e in verità non so nemmeno io di cosa soffra. Non mi curo e non mi sono mai curato, sebbene nutra il massimo rispetto per la medicina e per i dottori. Per giunta, sono anche estremamente superstizioso; o per lo meno lo sono abbastanza da rispettare la medicina. (Sono abbastanza colto da non essere superstizioso eppure lo sono ugualmente). No, io non voglio curarmi per cattiveria. Questo probabilmente voi non lo capirete, ma io invece lo capisco. Naturalmente non sarei mai capace di spiegarvi a chi esattamente voglio far dispetto in questo caso con le mie ripicche; so benissimo che non sono assolutamente in grado di nuocere nemmeno ai dottori per il fatto che non vado a farmi curare da loro; anzi, so meglio di chicchessia che con ciò faccio del male unicamente a me stesso e a nessun altro. Ciononostante, se non mi curo lo faccio proprio per cattiveria: il fegato mi duole, ebbene che mi faccia ancora più male!", pp. 203-204.
"Lo ripeto, lo ripeto con raddoppiata convinzione: tutte le persone immediate, tutti gli uomini d'azione sono attivi proprio perché sono limitati e ottusi. Come si spiega ciò? Ecco come si spiega: questa gente, per la propria limitatezza, prende le cause più prossime e secondarie come cause prime, e in tal modo si convince molto prima e molto più facilmente degli altri di aver trovato un fondamento indiscutibile al proprio agire, e quindi si acquieta; e questo è l'essenziale. Infatti per cominciare ad agire è necessario innanzi tutto essere perfettamente tranquilli ed essere liberati da qualsiasi dubbio. Ma io, per esempio, come posso essere tranquillo? Dove sono le cause prime sulle quali potrei poggiarmi? Dove i fondamenti? Da dove li prendo? Il mio pensiero è continuamente in modo e perciò ogni causa prima ne trascina immediatamente dietro di sé un'altra più originaria, e così via all'infinito", pp. 216-217.
"Eh signori miei, ma che razza di libertà mi rimarrebbe il giorno in cui si arrivasse alla tabella e all'aritmetica, il giorno in cui fosse valido soltanto il due più due quattro? Due più due farà sempre quattro, anche senza la mia libertà. E questa voi me la chiamate libertà?", p. 231.
"Pensate un po': se invece di un palazzo ci fosse un pollaio e cominciasse a piovere, io forse mi infilerei anche nel pollaio per non bagnarmi; ma, in ogni caso, la riconoscenza che proverei per essere stato salvato alla pioggia non mi indurrebbe a prenderlo per un palazzo. Voi ridete e siete perfino capaci di dire che in questo caso un palazzo o un pollaio fa esattamente lo stesso. Sì, rispondo io, se vivessimo soltanto per non bagnarci", p. 234.
"Ci è penoso perfino essere uomini, uomini con un corpo vero e proprio, col sangue nelle vene; ci vergogniamo di questo, lo consideriamo un'onta, e ci sforziamo in ogni modo d'incarnare un certo tipo di uomo universale che non è mai esistito. Noi siamo nati morti, già da un pezzo non siamo più generati da padri viventi, e la cosa ci piace sempre di più. Cominciamo a prenderci gusto. Ben presto inventeremo il modo dai nascere da qualche idea. Ma ora basta; non voglio più scrivere dal «sottosuolo»", p. 322.
