Rumore bianco: quel che il film non dice, perché non può, del romanzo di DeLillo
Alfonso Falanga, 25.02.2023

   La recente visione del film Rumore bianco (2022) mi ha sollecitato una seconda lettura del lavoro di Don DeLillo da cui è tratta l'opera del regista Noah Baumbach.

Rumore bianco (Don DeLillo, Rumore bianco, White Noise, 1985, tr. Mario Biondi, Einaudi, 2014), la prima volta, mi era parso sì un bel libro ma, tutto sommato, inferiore rispetto ad altri romanzi dello stesso autore come, ad esempio, Zero K e UnderworldAd una seconda lettura, invece, mi ha mostrato tutto ciò che il film non è riuscito a veicolare verso lo spettatore. Questo non per una incapacità del regista o un vuoto nella sceneggiatura oppure a causa della recitazione. Il motivo è un altro: è difficile, se non impossibile, che la trasposizione cinematografica - per quanto di qualità- faccia emergere il gioco di parole realizzato dallo scrittore americano per costruire contenuti altamente simbolici e rilevatori del suo essere un visionario. Dove per visionario, qui, non si intende semplicemente possedere attitudine a dare sfogo ad una fervida immaginazione bensì la capacità, sostenuta da un indiscutibile mestiere, di disegnare con le parole un intreccio di colori, espressioni, movimenti, stati d'animo e a farlo con una tale precisione e coerenza al punto che agli occhi del lettore attento la pagina si trasforma in una sorta di tela su cui quei colori, quei movimenti, quei volti e quegli stati d'animo appaiono proprio come tracciati dall'abile mano di un abile pittore.

E non conta se si tratti o meno di eventi ordinari oppure epocali. Con DeLillo, anzi, sono proprio le persone "normali" a diventare eroi. Tali in quanto protagonisti di storie eccezionali o di storie banali narrate, però, in maniera eccezionale. O di storie di apparente normalità e di cui lo scrittore fa emergere l'eccezionalità. L'elemento stupefacente. Disorientante. Inquietante. Come se esortasse i lettori a non abbassare la guardia nemmeno di fronte agli avvenimenti che più sembrano previsti e prevedibili, quotidiani, automatici, di routine. Dovunque, sembra dire l'autore, si cela l'eccezionalità.


   Nel caso di Rumore bianco, tra l'altro, si tratta di fatti davvero eccezionali, in quanto a imprevedibilità e a conseguenze sulla quotidianità, fronteggiati da persone "normali".

Jack Gladney, il personaggio intorno a cui ruota la storia, è un individuo che rispecchia i canoni dell'americano medio, anche se è tutt'altro che medio il lavoro che svolge: al riguardo, ecco come presenta la sua professione:

"Io sono preside del dipartimento di studi hitleriani presso il College-on-the-Hill. Sono stato io a inventare gli studi hitleriani in America del nord". (cit., p. 6).

Jack svolge questo compito con l'impegno e la disinvoltura di un qualsiasi altro insegnante di qualsiasi altra materia. E non perché sia nazista. Semplicemente perché è il suo lavoro. Perché un corso di lezioni su Hitler gli è sembrata una buona strategia di marketing per accrescere il prestigio dell'istituto. Un'idea che, infatti, viene accolta favorevolmente dal rettore e che ha successo sia all'interno che all'esterno del College. Jack si fa eroe quando affronta, insieme alla sua famiglia e a tutti i suoi concittadini, l'evento straordinario e imprevedibile, il cigno nero ovvero la nube tossica che incombe sulla città. Diventa eroe a partire dalla seconda parte del romanzo, appunto intitolata L'evento tossico aereo (cit., p. 131), dove arriva in scena la "…nube grassa e nera" (cit., p. 140) che il vento spinge verso la città e che grava, sulla testa, sui corpi, sulle vite - attuali e future - dei suoi abitanti, che non hanno altra scelta che abbandonare le loro case e, insieme ad esse, la routine quotidiana, prevedibile e noiosa quanto rassicurante.

Qui comincia il confronto di Jack con il fatto eccezionale, con la morte che si sarebbe diffusa tra i vivi e non solo, la morte che sarebbe penetrata nei geni, che avrebbe fatto la sua comparsa in corpi non ancora nati (cit., p. 141).

Eppure, il tutto- fuga, convivenza, riflessioni sulla vita e sulla morte si svolge all'interno di una cornice di accettazione dell'elemento straordinario. Che non è rassegnazione: si lotta, per sopravvivere. Non è svalutazione del rischio: la nube c'è, si vede e la si teme, anche se sono scarse e ancora approssimate le informazioni sui suoi effetti letali. Si tratta di un'accettazione tesa a semplificare quell'eccezionalità (e i rischi e la paura che porta con sé) e, così, a depotenziarla.


   Jack, di fronte all'eccezionalità dell'esperienza che sta vivendo, adotta lo stratagemma che applica ogniqualvolta intende proteggere se stesso e, principalmente, i suoi cari dalle molteplici forme che, nella sua mente, assume l'idea della morte. Il che vuol dire, ora, proteggerli dalla consapevolezza di quanto sia grave il pericolo che corrono esponendosi alla nube tossica. Lo stratagemma di Jack consiste non nel negare i fatti ma nel negarne l'eccezionalità. Nel trasferire l'esperienza inquietante in altre esperienze scelte tra quelle solite, banali, quotidiane, di routine. Sperando che questa sovrapposizione annebbi, nelle loro menti, l'idea della morte e che attutisca, nei loro animi, la paura che ne deriva. È proprio quello che Jack fa quando, in fila insieme ad altri suoi concittadini, giunto il suo turno, è in piedi davanti al giovane (è un semplice burocrate? E' un medico? In effetti, dà informazioni mediche con uno stile da impiegato come se Jack, per lui, fosse null'altro che una pratica da sbrigare) che, dietro ad una scrivania, smanetta sul pc per ricavare -dai dati inseriti riguardo ai tempi di esposizione alla nube tossica - informazioni su quanto gli resti da vivere.

"Ero lì in piedi con le braccia conserte, cercando di dare l'immagine di un individuo impassibile, in coda in un negozio di ferramenta, in attesa che la commessa battesse sul registratore di cassa l'importo della sua corda ultraresistente. Sembrava l'unico modo per neutralizzare gli eventi, per controbattere lo scorrere dei puntini computerizzati che registrano la mia vita e la mia morte. Non guardare nessuno, non rivelare nulla, rimanere immobile" (cit., p. 169).

Jack viene a sapere che sì, morirà, ma la sua fine non è certo imminente: ce ne vuole ancora di tempo (trent'anni e forse più, così gli ha detto il giovane da dietro lo schermo del computer). Eppure, questa notizia non basta a Jack per rasserenarsi. Anzi, è la conferma che il male ha avuto il sopravvento. Gli anni non contano: che siano uno, dieci, trenta non impedisce all'assurdo di impossessarsi della sua esistenza.

L'inquietudine persiste: Jack è ormai come marchiato dalla nube tossica che non scomparirà mai dal suo organismo e, in modo particolare, dalla sua mente. La faccenda si è ridotta ad un complesso di effetti nefasti innegabili: impiegheranno solo del tempo a manifestarsi. È solo questione di tempo.



   Jack, insomma, non è un Joseph K. kafkiano in quanto, nel suo tentativo di normalizzare l'eccezionale, finisce per rendere epocale un evento che è, tutto sommato, spiegabile: Jack, come tutti gli altri, prima o poi morirà perché questa è la vita, anche senza la nube. Joseph K., invece, cerca di spiegarsi quel che di inspiegabile lo investe e che è tale senza che lui vi contribuisca. È condannato e senza aver commesso alcun reato. Jack, invece, sceglie la sua condanna.

E' pur vero che è una scelta fino a un certo punto: a Jack, infatti, l'assurdo inibisce ogni facoltà di ragionamento. Perciò, egli sembra dirci che quando l'assurdo si impossessa della mente è poi difficile che l'abbandoni. Dall'assurdo, una volta che lo si è conosciuto, si resta segnati per sempre.

   Un'altra differenza tra l'esperienza di Jack e quella del personaggio kafkiano riguarda gli scenari: per Joseph K. l'assurdo si mostra in luoghi già in sé eccezionali e cioè castelli, tribunali, locali cupi e misteriosi.

Per Jack, invece, la normalità incontra l'imprevisto al supermercato, luogo/non-luogo post-moderno che è un insieme di suoni e colori tanto avvolgente da far perdere consistenza a chi lo attraversa. Suoni, odori e colori prevalgono sulle persone.


   Poco fa ci siamo chiesti a cosa o a chi potesse appartenere quel rumore bianco che dà il titolo al romanzo. DeLillo, al riguardo, fa dire ai suoi personaggi:

"-E se la morte non fosse altro che suono? (Babette, la moglie di Jack, N.d.A.)

-Rumore elettrico (Jack).

-Lo si sente sempre. Suono ovunque. Che cosa tremenda!

-Uniforme, bianco.

-A volte mi invade - disse lei- A volte mi si insinua nella mente, a poco a poco. Io cerco di parlarle, «Non adesso, morte»" (cit., p. 238).


   Rumore bianco è un romanzo dove è la morte la vera protagonista. Così come in L'uomo che cade, la morte sembra assumere contorni misteriosi - eccezionali - solo per attribuirsi un senso. Per rendere sopportabile, agli uomini, l'idea che ne hanno e che mai li abbandona, così come mai li abbandona quel sordo rumore, quel rumore bianco. 

In quest'ottica trova senso anche il corso di Jack su Hitler: stando così le cose, infatti, le lezioni sul dittatore nazista diventano una serie di lezioni sulla morte. Un modo per rendere più familiare, principalmente a Jack stesso, la morte, l'assurdo e la violenza - la morte sottrae, senza preavvisi- che l'accompagnano.