Zero K, di Don DeLillo: un romanzo dalle molteplici chiavi di lettura
Alfonso Falanga, 4 dicembre 2022.

Ad una lettura superficiale è possibile che Zero K risulti una storia di fantascienza. Oppure, quel genere di narrazioni dove i protagonisti appartengono a una setta pseudo-religiosa che fonda il proprio credo sulla possibilità di vita eterna. In questo romanzo di Don DeLillo ci sarebbero tutti gli ingredienti al riguardo: gli adepti pronti al sacrificio, il guru, i dialoghi sul confronto/scontro tra la vita e la morte, il credo in una morte solo temporanea e in una vita, invece, che si rinnoverà indefinitamente. Storie banali e banalizzanti riguardo a temi che, invece, posseggono una loro profondità emotiva, intellettuale, spirituale.
L'equivoco rischia di sorgere già dallo scorrere le prime pagine, che introducono alla storia di Jeff Lockart, personaggio centrale, costretto a fare i conti con la decisione del padre, Ross, di farsi ibernare (quando è ancora vivo o, per meglio dire, non è ancora morto). Allo stesso procedimento, prima di lui, sarà sottoposta la sua seconda moglie, Artis, ma solo quando la dolorosa malattia che l'affligge l'avrà consumata definitivamente, facendole esalare l'ultimo respiro.
La procedura sarà realizzata, per entrambi in una struttura, che è un po' albergo, un po' ospedale, un po' (tanto) laboratorio sperimentale. Un luogo con la sua indiscutibile tipicità eppure anonimo. Una realtà irreale resa concreta proprio da Ross e dai suoi lauti contributi: egli, infatti, da ricco magnate qual è, può permettersi di sovvenzionare Convergence, il progetto che fa sì che la medicina e la tecnologia, oltre a una forte capacità immaginativa, si uniscano per generare nuove vite in altri mondi di là da venire.
Jeff arriva in questa sorta di casa di cura - dove la cura consiste nel dare la morte, o per meglio dire nel non ostacolarne in alcun modo il sopraggiungere, per poi restituire la vita - e di cui "...era difficile stabilire il numero esatto di strutture. Due, quattro, sette, nove. O una soltanto, con degli annessi disposti a raggiera" (Don DeLillo, Zero K -Zero K2016- tr. Federica Aceto, Einaudi, 2022. p. 10).
Jeff è lì per salutare un'ultima volta suo padre. Forse, senza volerlo e senza accorgersene, anche per assisterlo spiritualmente sia nella perdita di Artis che, dopo, nel suo sottoporsi alla procedura che, chissà quando, li farà ricongiungere in una nuova vita.
Jeff ha pure modo di avvicinare la donna prima che il male abbia su di lei, una volta per tutte, la meglio. Tra loro ci sarà un fitto dialogo sul passato, sul presente e sul futuro: quello immaginato, sperato, inseguito.
Jeff così tratteggia il momento inziale del loro incontro:
"Artis era sola nella suite che occupava con Ross. Era seduta in poltrona, in vestaglia e pantofole, e sembrava addormentata. Cosa dico? Come comincio? Sei bellissima, ho pensato, ed era vero, purtroppo, nonostante fosse infiacchita dalla malattia; la faccia magra, i capelli biondo cenere, spettinati, le mani pallide in grembo" (cit., p. 17).
L'operazione a cui verrà sottoposta prima Artis e dopo Ross è l'essenza del progetto Convergence, la cuinatura ed i cui obiettivi sono così sintetizzati dal padre al figlio:
"-E Artis? (Jeff, N.d.A.).
-Lei è prontissima. Non c'è ombra di esitazioni o ripensamenti (Ross, N. d. A.).
-Non stiamo parlando di una vita spirituale eterna. Qui si tratta di corpo.
-Il corpo verrà congelato. Sospensione criogenica, - ha detto.
-E poi nel futuro.
-Sì. Un giorno sarà possibile neutralizzare le circostanze che conducono alla fine. La mente e il corpo verranno risanati, riportati in vita.
-Non è nuova come idea. Dico bene?
-Non è nuova come idea.
-È un'idea, - ha detto, - che si sta avvicinando alla sua completa realizzazione" ( cit., pp. 12-13).
Ben altre letture sono possibili, anzi doverose. Zero K si può interpretare, ad esempio, come la trasposizione romanzata di un saggio filosofico sul rapporto dell'uomo con la morte (con la paura della morte) e sugli stratagemmi messi in atto per sfuggirle definitivamente, non semplicemente per ritardarla. E lo fa diventando, in quest'impresa, così creativo e abile da giungere al punto, come afferma uno dei personaggi, di fare della morte stessa l'origine della vita.
"-Da queste parti capovolgiamo il testo, leggiamo le notizie al contrario. Dalla morte alla vita. - ha detto.
- I nostri macchinari entrano nel corpo in modo dinamico e diventano le parti e le vie di accesso ammodernate che ci servono per poter vivere di nuovo" (cit., p. 115).
La tecnologia è lo strumento con cui l'uomo compie questa sorta di miracolo laico pur nella consapevolezza che non basta a liberarlo dalla schiavitù della morte o, meglio, dall'impulso a fare di essa la cornice, la sola cornice possibile, in cui tratteggiare l'evolversi della propria esistenza.
"-La morte è un'abitudine difficile da spezzare" (cit. p. 67).
Gestire la morte non è, ovviamente, cosa semplice e non solo da un punto di vista emotivo ma anche cognitivo, filosofico. Si tratta dell'addestrarsi a muoversi in un tempo la cui linearità è invertita, a percepire il mondo oltre i limiti stabiliti spazio-tempo.
È l'ottica di chi è obbligato a riconoscere che:
"Noi che siamo qui non apparteniamo a nessun altro posto. Siamo seduti fuori dalla storia. Abbiamo abbandonato le persone che eravamo e i luoghi dove eravamo per poter essere qui" (cit., p. 116).
Ecco, allora, profilarsi una nuova interpretazione, che fa di Zero K manifesto del post-modernismo: in esso c'è il richiamo alla rottura delle grandi narrazioni, delle tradizioni (poco importa se utili, coerenti, necessarie), degli standard cognitivi e comportamentali. Tra questi, appunto, la percezione del tempo e dello spazio "normali".
Il mondo post-moderno si riflette nel luogo in cui si realizza Convergence, ovvero il passaggio dalla morte alla vita: un ambiente dove la temporalità inverte il suo percorso e dove il pieno si confonde con il vuoto.
Non mancano i dubbi sulla qualità della nuova vita: su quel rinascere reso possibile dalla tecnologia (a sua volta resa possibile dai soldi) ma di cui non è garantito il controllo da parte di coloro che a questa nuova vita approderanno.
Jeff non può fare a meno di chiederselo.
"E tutte le vite rinvigorite sarebbero state identiche, rifinite dal processo stesso? Morire in quanto esseri umani e rinascere come droni isometrici" (cit., p. 131).
Il dubbio forte, insomma, riguarda quanto nel nuovo mondo reggerà la consistenza della materia e, in particolare, di quella di cui sarà fatto l'individuo stesso, che affiderà la guida della sua nuova esistenza alle macchine più che alla sua volontà. Una consistenza che già mostra le sue crepe prima ancora che il processo di ibernazione abbia inizio. La perdita di controllo, infatti, su se stessi comincia già nelle stanze di quel luogo un po' ospedale, un po' albergo, un po' (tanto) laboratorio sperimentale.
Ne dà conferma una donna misteriosa che, insieme a un uomo altrettanto misterioso, è lì a parlare a coloro che si apprestano ad abbandonare la vita terrena e lo fa senza alcun intento né di incoraggiare né di consolare. Anzi, si esprime con un linguaggio crudo, schietto, che non dà adito a seconde o terze interpretazioni. Vale la pena riportarne un esempio.
"E voi che tornerete in superficie: non ci avete fatto caso? Alla perdita di autonomia. Alla sensazione di essere ridotti a uno stato virtuale. I dispositivi che usate, quelli che portate ovunque, di stanza in stanza, di minuto in minuto, inesorabilmente. Vi sentite mai scarnificati? Tutti gli impulsi decodificati ai quali affidate il compito di guardarvi. Tutti i sensori presenti in una stanza vi guardano, vi ascoltano, tengono traccia delle vostre abitudini, misurano le vostre capacità. Tutti i dati interconnessi che hanno lo scopo d'incorporarvi all'interno di megadati. C'è qualcosa che vi rende inquieti? Pensate a un virus tecnologico, a un crollo di tutti i sistemi, all'implosione globale? Oppure è qualcosa di più personale? Vi sentite immersi in una specie di orribile panico digitale che è allo stesso tempo ovunque e da nessuna parte?" (cit., p. 213).
A conti fatti, questa donna a cui Jeff non sa che nome attribuire, se Zina o Zara (un nome che abbia inizio comunque con Z, una lettera forte che esprima la voce forte, asciutta e autorevole della donna stessa), pare che si stia rivolgendo non ad individui di questo mondo proiettati verso un'altra vita, bensì a coloro che vivono questa vita, che abitano questo mondo, un mondo dove la materia - delle cose e quella umana - perde progressivamente la sua consistenza, appunto, per lasciare il posto alla inconsistenza (che è tutt'altro che irrealtà) della tecnologia.
Zina, o Zara oppure Z e qualcosa, descrive un mondo post-moderno e attuale più che l'altro mondo, quello futuro, possibile, probabile. Un mondo che è ancora un'ipotesi di lavoro.
Zero K offre una ulteriore lettura, lì dove si interpreta la morte come l'origine del non senso delle cose, dei rapporti personali, del rapporto con se stessi. È la finitudine a rendere incomprensibile gli eventi e le persone: è perciò difficile ascoltare se stessi e gli altri, è difficile spiegare, descrivere, capire gli eventi. Il linguaggio risulta insufficiente al riguardo.
Eppure, sembra dirsi Artis nell'ultimo dialogo con se stessa pieno di realismo, non abbiamo altro. Vale la pena, perciò, fare del linguaggio il miglior uso possibile.
"Sono qualcuno o sono solo le parole a farmi pensare di essere qualcuno? Perché non posso sapere di più? Perché solo questo e nient'altro? O devo aspettare? [...] Le parole sono l'unica realtà? Sono io stessa nient'altro che parole? Questa è la sensazione che provo, che le parole vogliono dirmi delle cose, ma io non so come ascoltare" (cit. p. 142).
Il linguaggio: ecco il solo strumento che si ha a disposizione per controllare l'incontrollabile.
Zero K dà anche un ulteriore suggerimento al lettore: provare ad intenderlo come un romanzo familiare il cui nodo centrale sono il rapporto padre-figlio, quello figlio-madre e figlio-matrigna. Oltre alle consistenti incursioni nel rapporto di coppia, particolarmente di Jeff con le sue donne, tra cui emerge Emma.
In ultimo, DeLillo offre una lettura in chiave esistenzialista, secondo cui appare del tutto insensata-in quanto destinata in partenza al fallimento-la lotta dell'uomo verso l'insensatezza della vita: non c'è altro, sembrano suggerire i personaggi di Zero K, nonostante il loro tendere verso un altro mondo, verso l'anormalità: il loro volere a tutti i costi - a costo della vita - andare oltre quanto c'è, si vede, si tocca. Non c'è altro, invece, rispetto alla tanto vituperata normalità.
È la conclusione a cui giunge Jeff mentre, esauritasi l'esperienza con Ross e Artis, fa ritorno a casa viaggiando su uno di quegli autobus che attraversano l'intero paese. È proprio sul mezzo, quando giunge a Manhattan, che la sua attenzione si rivolge a un bimbo e sua madre, seduti in fondo. Il bambino è in piedi davanti al finestrino e osserva stupito i raggi del sole che, in quel momento, si allineano perfettamente con la strada generando un fenomeno che, ci comunica Jeff, si verifica a Manhattan un paio di volte all'anno. Il bambino emette gemiti di meraviglia. Ma Jeff sa che il bimbo non si sta così esprimendo perché vede, in quel particolare gioco di luce solare, chissà quale evento misterioso, bensì "...lui sperimentava il più puro senso di stupore all'intimo contatto tra terra e sole" (cit., p. 244).
Anche a Jeff, allora, non serve "...la luce del paradiso. Mi bastavano le grida di gioia del bambino".
Infine, Jeff comprende che c'è qualcosa per cui vale la pena vivere e che riguarda l'uomo, anche se non dipende dall'uomo: è la vita, semplicemente la vita.
Non è un'ode al buonismo. All'ottimismo. Non è un invito alla speranza. È semplicemente la constatazione che l'uomo non genera alcunché che dia senso alla vita e, per quanti sforzi faccia per andare oltre la normalità quotidiana, alla fine è proprio questa, invece, la condizione per cui vale la pena vivere. Non c'è altro, ci dice Jeff. Facciamocene una ragione.